lunedì 1 settembre 2025

Transcaucasia

DJABAL AL-ASUN "LA MONTAGNA DELLE LINGUE" (CONFINI SOSPESI)
SHKHSRA, LAILA.  PIETRE.
Ghiaccio vigile, silenzio trattenuto, inquieto.
TRANSCAUCASIA (AZERBAIJAN, GEORGIA, ARMENIA) 2025



dedico questa esperienza a mia mamma
dedico queste riflessioni a mio papà, compagno di viaggio

 

Quanti morti, quanto sangue, quanto dolore sono legati alle frontiere. 
Infiniti sono i cimiteri per tutte le vittime che hanno difeso un confine…
RYSZARD KAPUŠIŃSKI

PREMESSA

Non so quando ho cominciato davvero a cercarlo. Forse nei deserti di ghiaccio della Groenlandia, forse nei monasteri dell’Asia, o più semplicemente sul Carso, nella casa di famiglia. Ma il motivo ricorrente è sempre stato quello: il silenzio
Non quello assoluto, che non esiste, ma quello che emerge nei vuoti tra i rumori, negli spazi lasciati liberi. È il silenzio interiore; ma è anche quello delle terre che si attraversano, che ci parlano a modo loro. Il silenzio che ci consente di guardare più a fondo, di ascoltare con maggiore attenzione. In questi anni ho capito che ci sono diversi silenzi. Quello che descrive Eugenio Turri non è quiete, ma una condizione necessaria per leggere il paesaggio, per scoprire i segni. Ed è proprio questo il silenzio che cercherò in questo viaggio. Non sarà solo un silenzio introspettivo, ma un silenzio che affiorerà tra le rovine, tra le voci di popoli che si sono susseguiti, nei segni di guerre non lontane e di culture che si sovrappongono. Un silenzio che permette di avvicinarsi al mondo con maggiore consapevolezza, in punta di piedi.

Scrivere di viaggi per me non è mai stato soltanto descrivere luoghi. È un esercizio di ascolto. 
Nei ghiacciai come nelle steppe, nei solitari altipiani asiatici come nella verticalità delle montagne, il silenzio ha avuto forme diverse ma la stessa forza dirompente.
Ho scritto tante pagine nell’arco di molti anni. Appunti presi sul campo, ricordi che si sono sedimentati, riflessioni che a volte sono arrivate in ritardo, quando il viaggio era già finito. Non c’è una mappa, non c’è un itinerario lineare. C’è piuttosto una lunga serie di luoghi e momenti legati da una stessa idea: capire come il silenzio può diventare guida, compagno di strada.
Il silenzio che cerco è la lingua più antica che ci resta, e forse l’unica che ancora sappia metterci in contatto con ciò che abbiamo perso; e con noi stessi.
Fin dall’inizio scrivere è stato un modo per fermare ciò che altrimenti sarebbe scivolato via, un paesaggio, un volto, un dettaglio qualsiasi che improvvisamente diventava essenziale. Ho sempre sentito il bisogno di capire cosa restava dentro dopo ogni ritorno.
Col tempo mi sono accorto che questi appunti parlavano non solo di terre lontane, ma anche della mia. Ogni ghiacciaio, ogni deserto, ogni villaggio sperduto mi restituiva in controluce il Carso e le frontiere che ho addosso da sempre.
Forse scrivo per questo, per ritrovare casa viaggiando lontano. Per scoprire che le domande che porto con me, sulla fragilità, sul tempo, sulle comunità, sono le stesse che appartengono a chiunque, ovunque.

1. PARTENZA

Sono in volo per Francoforte. Le nuvole scorrono come pensieri; c'è un pò di turbolenza, proprio come nei miei pensieri. Sono in attesa di partire per Baku. Il nome già basta a evocare storie in lingue a me sconosciute.
C’è sempre un momento, prima di ogni viaggio, nel quale il mondo che lasci dietro comincia a scolorire, e quello che ti attende non ha ancora preso nessuna forma. Mi trovo nel solito spazio sospeso, un non-luogo, fatto di sale d'attesa, aeroporti, voci in lingue sconosciute. Ed è proprio qui che torna a nascere la curiosità e la voglia di lasciarsi sorprendere.
Guardo gli altri passeggeri. C'è chi sonnecchia, chi guarda il cellulare, come se tutto fosse normale. Ma è così davvero per tutti? Io so che da ora comincerò a cambiare lo sguardo. Che il mio passo si farà più lento, il mio sguardo più attento. Che ogni dettaglio, un volto, una strada, un cibo nuovo, sarà un appiglio per capire meglio dove sono.
Sono in volo, ma la Transcaucasia già mi parla. Immagino montagne e monasteri, musiche arcane e antichi popoli. Sarà un viaggio tra i confini, certo, ma anche dentro di me, come è sempre stato; tra ciò che credo di sapere e ciò che il mondo ogni volta mi ricorda di non aver ancora capito. Perché ogni volta che parto non è solo per vedere un posto nuovo. È per ritrovare una direzione che nella quotidianità perdo senza nemmeno accorgermene. Travolto dalle cose da fare, dai pensieri ripetuti, dai gesti sempre uguali. Semplicemente travolto dai fatti della vita.
E invece il viaggio mi costringe a cambiare passo. A guardare, ad ascoltare.
Mi ricorda che non so tutto, che c’è ancora così tanto da capire. Del mondo. Ma anche di me stesso.

E quindi quest'anno il Caucaso, quel corridoio tra Asia ed Europa dove tutto si mescola.
Le pietre raccontano i monasteri nella roccia, le chiese e le torri solitarie. Io che ho viaggiato in alto, tra le vette asiatiche, tra ghiacciai e deserti, ora cerco qualcosa che non sia solo vasto, ma denso.
Cerco una narrazione. 
Desidero camminare tra le storie.
Desidero vedere le maestose montagne che per lunghi chilometri fanno da barriera tra le immense steppe asiatiche e gli aridi altipiani dell’Anatolia e dell’Iran, dove si incontrano Europa, Russia e Oriente.

L'anno scorso scrissi questa frase: "Quest'anno mi trovo a un punto di svolta, sono sospeso tra l'attrazione per i paesaggi scolpiti dalla geologia e una curiosità crescente verso la geografia umana. È l'intensità del contesto, con la sua ricchezza culturale e le sue storie, che mi spinge a esplorare questi luoghi non solo con occhi attratti per i paesaggi scolpiti dalla geologia, ma con quelli di chi cerca di comprendere l'anima delle persone che li abitano".

È un cammino che accade da sé, paesaggi e persone insieme, dentro la mia ricerca del silenzio. 
 

L’ho scoperto leggendo un libro, il georgiano non è imparentato con nessun'altra lingua al mondo. Non con il turco, non con il russo, né con l’armeno dei vicini. Nemmeno con le lingue del Caucaso settentrionale, che pure stanno lì a pochi passi.
Ho riletto due volte. Una lingua che non ha famiglia, né padri, né cugini. Una lingua che cammina da sola, da millenni, su quelle montagne.
Non serviva altro per farmi sentire già altrove.
È strano come certe frasi brevi riescano a muoverti. Vedo la Georgia con occhi un pò diversi ora, rispetto a come me l'ero immaginata. La osservo come qualcosa che resiste, ostinata. Una lingua che non ha bisogno di somigliare a nulla per esistere.

Sembra così facile sognare, lasciarsi andare a nuove esperienze. Eppure non lo è. Non è facile ritrovare il filo che ogni anno lascio alla fine dei miei viaggi. Ogni anno sono un pò diverso rispetto all'anno precedente. Questo lungo diario iniziato nel 2011 mi fotografa in diverse fasi della mia esistenza. C'è un filo conduttore certamente, ma poi ci sono tante variabili, nuovi sogni, nuove riflessioni, un modo un pò diverso di vedere il mondo e di vivere queste esperienze di viaggio. 
Quest'anno parto con sensazioni contrastanti. Parto con grande curiosità come sempre, ma con un anno alle spalle che mi ha un pò provato. Sento una leggera stanchezza; vorrei ritrovare la freschezza dei primi viaggi, ma per il momento è come se fossi in attesa. Sono sempre più cosciente del fatto che queste esperienze iniziano mentre si fanno e poi procedono nei mesi e negli anni a seguire. Non chiedo tutto subito, mi lascio lentamente trasportare dagli eventi; vivo il momento, assorbo, e poi lascio che i miei viaggi germoglino e fioriscano in me nel tempo. Ormai lo so, e sono solo i momenti più belli a emergere e a crescere. Quando le emozioni sono troppe e non riesco a contenerle nel momento in cui le vivo, trovano comunque un modo per emergere, lentamente, nel tempo.
Quante sensazioni contrastanti si vivono il giorno della partenza. Si immaginano luoghi lontani, inesplorati, ma con la testa ancorata al presente, alla vita di sempre. Per 'disarcionarmi' ho bisogno di tempo e quest'anno forse ce ne vorrà di più. 
Un viaggio di nuovo vicino al paese più grande e controverso del mondo, la grande Russia, che oggi inevitabilmente mi fa provare sensazioni contrastanti. Rimane il fascino di un passato importante, di un enorme paese che visitai per la prima volta nel 1988. Chi l'avrebbe mai detto che col passare degli anni avrei attraversato così tanti paesi che un tempo appartenevano a quell'immenso territorio, l'ex Unione Sovietica. Anche quest'anno ne sfiorerò i confini, per ammirare quelle alte montagne, il Caucaso, confine di pietra, barriera naturale che indica dove dovrebbe finire un mondo e dove ne dovrebbe cominciare un altro.
Le lunghe attese negli aeroporti servono a riflettere, a transitare verso il mio io viaggiatore.
Oggi è il cibo a portarmi altrove, un paio di würstel mi raccontano di lontani viaggi in Germania, mi riportano indietro alla mia infanzia. In volo verso Baku è la cena a staccarmi lentamente dalla mia quotidianità. Un involtino con foglie di vite, dei chicchi di melograno e un dolce ricoperto di miele mi parlano di Grecia, di Turchia, mi traghettano verso l'Azerbaijan. Riscopro il piacere del viaggio da questi piccoli particolari. Due bicchieri di vino accelerano il passaggio al mio io viaggiatore. 
Oggi questi pochi elementi mi bastano per viaggiare lontano, verso le sponde del Mar Caspio. L'ho visto più volte dal finestrino dell'aereo, in volo verso l'Asia. Anche l’anno scorso l’ho sorvolato, una semplice macchia sotto di me, prima di proseguire verso Almaty.
Qualcosa dentro di me si sta muovendo, inaspettatamente. Solo viaggiando riscopro il piacere di conoscere. È così facile spegnersi, limitarsi, accontentarsi senza accorgersene.
Mentre scrivo sento che qualcosa cambia davvero. Mi sto disarcionando da abitudini strette, da un equilibrio che con un pò di amarezza non riesco a definire libertà.
Il numero di parole che ho scritto in questo primo giorno dice molto; è la misura delle emozioni vissute, del passaggio dalla fatica a lasciarsi andare, fino al piacere ritrovato di conoscere e viaggiare.


2. AZERBAIJAN 

Svegliarsi in Azerbaijan ha qualcosa di irreale.
Non ci sono effetti speciali, né immagini esotiche da cartolina. È qualcosa di più sottile. Sono lontano dal mio solito mondo. Questa semplice constatazione, il trovarsi altrove, è già di per sé una forma di magia.
In città, a Baku, si parla azero, ma anche russo, e pure turco. Lingue che si sovrappongono e si rincorrono. Le strade larghe, i prospekty, portano il segno evidente della mano russa. I palazzi del primo Novecento, costruiti nel tempo del primo boom petrolifero, mostrano una ricchezza che ai miei occhi sembra sobria, elegante. Niente ostentazione, una misura che quasi mi sorprende, in una città che pur galleggia sul petrolio. Ma sarà così?

Mi colpisce il contrasto. E sento già da ora che sarà un viaggio di contrasti, di sfumature da cogliere una per una. Oggi vedo la grande città, le architetture imponenti, il volto moderno e raffinato. Come sempre il viaggio comincia nel centro, dove arrivano gli aerei e tutto sembra ordinato. Ma so che dietro c’è dell’altro. Mi incuriosisce tutto. Non solo le montagne che mi hanno spinto a partire, ma anche ciò che non cercavo. I dettagli, i racconti. Mi piace ascoltare, farmi raccontare un luogo.
La città vecchia racconta il passato a fatica, come se la voce le si fosse rotta a forza di demolizioni e ricostruzioni. Qui si parla ancora di hammam, di bazar, di caravanserragli, di darvishi. Ma bisogna immaginarseli perché i grattacieli e le nuove facciate hanno preso il sopravvento tutto attorno. Eppure è proprio questa mescolanza che definirei irrisolta che dà senso al tutto.

Nel cuore della città antica, nel Palazzo degli Shirvanshah, trovo una tomba attribuita a Seyid Yahya Bakuvi, un importante filosofo sufi e mistico del XV secolo, e ciò dice qualcosa sulla profondità che questo luogo nasconde.
Sarà un viaggio di contrasti. Lo sento già.
Come il popolo che abita queste terre, fatto di incroci, di strati su strati, di passaggi. Qui nulla è netto, tutto si è mescolato nel tempo, lingue, fedi, architetture, abitudini.
Ho la sensazione che non riuscirò a capire tutto subito.
Ci sono luoghi che si lasciano afferrare al primo sguardo. Questo no.
Qui le cose si mostrano a frammenti. Servirà pazienza. Camminare. Ascoltare.
Forse all’inizio sarà troppo; troppa bellezza, troppa storia, troppe domande.
Ma so che quelle impressioni torneranno, a distanza. Sedimenteranno dentro di me e riemergeranno lentamente con chiarezza.
Per ora non cerco di capire. Mi lascio attraversare e spostare come succede qui, quando soffia il vento del Caspio.

Saranno appunti disordinati, che si ripetono, dettati dall'impulso del momento. Non un inventario di nozioni, ma piuttosto una raccolta di emozioni. Come è sempre stato. E come spesso mi accade, lascio che sia il mio sguardo, e non l’intelletto, a prendere parola davanti a ciò che vedo.
Credo che sia proprio l’essere estranei a un luogo che ci rende osservatori più attenti. All’inizio si mettono a confronto le cose: "da me sono in un modo, qui in un altro". Poi qualcosa cambia. Si smette di paragonare e si comincia semplicemente a dire: "com’è interessante qui".
Ed è in quel momento che forse ci si sente liberi. Quando il bisogno di misurare svanisce e resta solo la voglia di capire.

Scrivo questo perché Baku non si lascia definire. Non la colgo subito. È insieme Europa e Asia, ma anche nessuna delle due. Le sue larghe strade parlano sovietico. Eppure, appena svolti un angolo, si alza il profumo del tè, della carne, e si sente il ritmo del Caucaso, e perchè no, della steppa.
È una città stratificata; il moderno la avvolge, la illumina, la sovrasta. Ma basta abbassare lo sguardo per trovare un portone scolorito, un palazzo antico, una pietra consumata.
È un luogo che non si lascia spiegare subito, ma che bisogna guardare a lungo; poi qualcosa, lentamente, si rivela.
La sera racconta un’altra Baku.
Di giorno, in questa domenica d’estate, le strade erano quasi vuote, sospese in uno stranissimo silenzio, era come se la città si fosse presa una pausa. Ma con il calare della notte tutto cambia.
I grattacieli si accendono, si colorano di immagini e luci in movimento. Motori accesi, musica dai finestrini. L’ostentazione emerge, quasi teatrale. Ma non stona. È solo un altro pezzo delle varie sfaccettature che ho cominciato a vedere oggi. Accanto alle grandi catene, gli antichi negozi di tappeti. Accanto ai vetri dei grattacieli, le pietre dei vecchi palazzi.
C’è di tutto. C’è davvero un mix. E più che confondere, affascina. Perché in fondo è questo il senso del viaggio, accorgersi che le cose coesistono, anche quando sembrano opposte. E che la città vera spesso si rivela proprio nei contrasti.
Certe volte è anche il cibo a spiegarti dove sei.
Lo fa con semplicità. Ho iniziato con un piatto chiamato Shah Plov. Un involucro dorato, sottile e croccante che racchiude riso, albicocche, uvetta, castagne.
E alla fine della cena il tè. Sempre il tè. Non si chiude un pasto senza. Arriva con piccoli frutti conservati nello zucchero, quasi marmellate solide da sciogliere in bocca. 


Il mattino è già caldo quando lascio Baku; la città scompare presto dietro una cortina di ciminiere e geometrie industriali. La strada si infila tra cantieri navali, impianti di estrazione, pozzi petroliferi.
Sono tanti. Troppi. Sembrano torri arrugginite che presidiano il paesaggio. Ma non alte tanto quanto la bandiera posta sul porto della città, ben 162 metri. Quella che vidi l'anno scorso a Dushanbe in Tagikistan è più alta, 165 metri; in questi luoghi si contendono questo primato.
La strada verso Qobustan prosegue e taglia un paesaggio piatto, arido, senza un filo d'ombra.
È un tratto di mondo che un tempo stava sotto il mare; il Caspio arrivava fin qui, prima di ritirarsi lasciandosi dietro sale, calore e una superficie screpolata.
La terra è ricca. Ricchissima. Di gas, di petrolio.
E proprio per questo oggetto di conquista e sfruttamento. L'uomo arriva, trivella, prende.
Conquista, sfrutta, dimentica.
Tutta questa ricchezza…
Eppure così poco per chi qui ci vive.
Un’economia sbilanciata, per un numero ridotto di persone, e una salute svenduta; alta è l'incidenza di malattie importanti. 
Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale, Baku forniva da sola l’ottanta per cento della produzione totale del petrolio dell’Unione Sovietica. La Germania pure dispiegò forze ingenti nel tentativo di conquistarla.
Terra contesa e martoriata.

La Riserva di Qobustan è un salto indietro nel tempo.
In questo luogo più di 6.000 petroglifi raccontano una presenza umana che risale a migliaia di anni fa. 
Al museo dei petroglifi una mappa racconta l’espansione dell’uomo. L'immagine parte da un punto nel cuore dell’Africa, per poi ramificarsi verso nord, verso est, verso tutto. Come una macchia che si allarga sulla carta.
L’ho guardata a lungo. Non è solo la storia di un cammino, ma anche di un’invasione.
Ovunque arriviamo, lasciamo un segno; scaviamo, tagliamo, bruciamo, costruiamo.
Abbiamo attraversato il mondo come se ci appartenesse, e abbiamo dimenticato che siamo solo ospiti. Quei petroglifi antichi, incisi da uomini che camminavano nel tempo senza lacerarlo, mi sembrano quasi un ammonimento. Loro segnavano la pietra per ricordare. Noi la segniamo per consumare. Attenzione uomo...
Cammino in silenzio. Il sole è alto.
Alla base del monte Boyuk Dash c'è un'altra sorpresa, un’iscrizione latina del I secolo dopo Cristo. Opera di un centurione romano. È la testimonianza più orientale dell’Impero romano, persa tra queste rocce del Caucaso. Non era un mondo innocente, anche i romani tagliavano, scavavano, sfruttavano. Ma i segni restavano locali, la natura li assorbiva. Oggi non più. Oggi noi a incidiamo ferite globali che la terra non riesce a rimarginare.
Mi fermo. Respiro.
La vastità qui è totale. Uno spazio vuoto che non concede appigli.
Qui non si visita, si ascolta.
Mi addentro nel complesso di Palçiq, un mondo lunare dove il suolo ribolle piano. Gas sotterranei spingono verso l’alto, danno forma a vulcani di fango che sputano bolle grigie. Sbuffi lenti, grigi, che sembrano respirare.
È il paesaggio più straniante che abbia visto finora.
Nessun villaggio, nessun rumore. Solo distanze.
Qui si apre un orizzonte davvero vastissimo, che si perde a vista d’occhio. Eccolo il primo paesaggio senza confini di quest’anno. Un luogo dove i miei pensieri cominciano a correre liberi.

Ma prima ancora del petrolio e dei tubi, questa era la terra del fuoco sacro. Dal VI secolo i fedeli zoroastriani venivano qui attirati dalle fiamme che uscivano dal terreno. Edificarono il tempio di Ateshgah costruito sopra una sorgente naturale di gas. Il fuoco non si spegneva mai. Era eterno. E per loro divino.
Letteralmente la terra dei fuochi. Non quelli della cronaca, ma quelli che bruciano da millenni, sotto la sottile crosta della terra. E che ancora oggi ricordano che qui tutto, ancora, arde.
Lascio Qobustan e gli altri luoghi che ho visto oggi con la sensazione di aver solo sfiorato qualcosa.
Qui il tempo si stratifica, scorre tra petroglifi e pozzi, tra vulcani di fango e centrali di estrazione, tra fuochi sacri e fiamme industriali.
È un luogo che non si lascia decifrare in fretta.
Ora che torno verso la città, ho la sensazione che qui ogni cosa — terra, fuoco, pietra — racconti qualcosa.


Lascio le sponde del Mar Caspio. Il viaggio riprende verso ovest, in direzione del Caucaso. La prima tappa sarà Shamakhi. Baku mi scorre accanto per l’ultima volta e solo oggi capisco quanto sia vasta. Le sue colline sono un susseguirsi di case basse, ordinate, quasi identiche. Una periferia senza fine, dove l’urbanizzazione ha preso ogni spazio rimasto. Da giorni mi colpisce l’omogeneità, nei materiali, nelle forme, nei colori. È una città che si distende, si replica, si moltiplica.
Poi finalmente arriva lo stacco. Il paesaggio si apre e l’asfalto della strada taglia territori che sembrano dimenticati. La vegetazione scompare, le già poche macchie di verde lasciano il posto a un’ampia varietà di toni color terra. Comincia la steppa, uno spazio nudo, arido, vasto. La strada serpeggia tra collinette brulle che si rincorrono. Qualche casa isolata, qualche pastore; una ruota panoramica abbandonata nel nulla, come uno scherzo, assolutamente surreale. È un paesaggio che si offre in silenzio.
Eppure questi territori, svuotati di vita vegetale, sono – e sono sempre stati – contesi. Percorrere la Transcaucasia significa anche imparare a leggere le stratificazioni di potere, le tensioni tra mondi diversi. Iran, Turchia, Russia, Europa. Qui tutto convive, tutto si fronteggia, tutto influenza. Lo si percepisce nelle architetture, nelle lingue, nei volti. Osservo, e imparo.
Shamakhi appare come una città di passaggio, segnata. Un tempo fu capitale degli Shirvan-Shah, per quasi novecento anni. Ma oggi ben poco rimane del suo glorioso passato. Terremoti, incendi, invasioni hanno cancellato le tracce. La Moschea del Venerdì, ricostruita da poco, porta dentro le cicatrici del tempo; danneggiata durante la guerra civile del 1918, mostra ancora le basi della moschea originale del X secolo. È un edificio sobrio, senza eccessi, come il paesaggio che lo circonda.
Il mercato cittadino dice più di mille monumenti. È lì che si capisce davvero dove si è. Frutta, formaggi, profumi, i colori dell’orto. Visi scavati, denti d’oro, mani segnate. Alcune donne vendono quel che coltivano, con sguardo basso. Uomini seduti all’ombra, intorno a tavoli sghembi, giocano a carte. Lada parcheggiate in ogni angolo. Mi siedo anch’io, prendo un caffè, e resto a guardare. Ora faccio parte anch'io di questa realtà.
Riparto. Le montagne mi chiamano.
Salgo tra i tornanti. Il paesaggio cambia di nuovo. Ricompaiono i colori, gli alberi, un’aria diversa. Il verde torna, si distende sui versanti, accarezza i crinali. Le montagne appaiono in fondo, lontane. Lungo questa linea, dove finisce la steppa e comincia l’altopiano, si incontrano mondi diversi. L’Azerbaigian più profondo, quello delle alture.
In questa parte del mondo la montagna è vista come remota, inospitale, luogo di antiche paure. I popoli delle valli guardano verso l’alto con diffidenza. L’alpinismo non è nato qui, è stato importato da noi europei. Ma per me, che nelle montagne trovo sempre un rifugio, sono un punto d’arrivo. Anche se non sono quelle alpine che conosco, sono le montagne del Caucaso. Case in pietra, tetti in lamiera, moschee al posto delle cappelle, e il canto del muezzin.
Faccio tappa a Nij. Villaggio minuscolo, quasi dimenticato, ospita una delle comunità più antiche del Caucaso, gli Udi. Ne rimangono pochi, circa diecimila, tra qui e la Georgia. Sono i discendenti diretti degli abitanti dell’antica Albania Caucasica (nulla a che vedere con l’attuale Albania balcanica). Sono cristiani, ma divisi. Alcuni seguono la chiesa armena, altri quella georgiana o quella russa. Parlano un dialetto proprio. Nel 2006 hanno restaurato la chiesa albana del paese, sobria, come tutto in questi luoghi.
Sotto un pergolato mi offrono tè e marmellata. Il tempo si ferma. Ciliegie e bucce d’anguria immerse nello sciroppo; rituali che raccontano ospitalità e lentezza.
Nel tardo pomeriggio arrivo a Sheki. Città elegante, circondata dalle montagne, verde e discreta. Un tempo si chiamava Nukha. Era un centro importante della Via della Seta, piena di caravanserragli e botteghe. Tessitori di seta, artigiani, mercanti; qui si incontravano vite e rotte commerciali. Il palazzo del Khan è ricco di affreschi, legni intagliati, vetri colorati. Un piccolo capolavoro. Racconta storie di potere, di bellezza, di mondi passati.
Sheki mi piace. Le case basse, i mattoni rossi, il verde ovunque. 
C'è un po’ di vento questa sera. Mi fermo all’aperto a sorseggiare un bicchiere di cognac. "Il cognac invecchiato contiene molto calore, molto sole. Va alla testa con calma, senza fretta. Tanto il suo effetto lo raggiunge lo stesso" scrive Kapuscinski nel suo libro Imperium.
Un duo intona melodie lente e avvolgenti. I suoni si muovono dentro le scale del maqam, irregolari, piene di sfumature; è una musica che ondeggia.
Domani mi aspetta un confine, con tanto di valico, controlli e strada da fare a piedi, zaino in spalla. Circa ottocento metri di terra di nessuno, tra Azerbaijan e Georgia. È una delle curiosità di questo viaggio. Vedere cosa succede lungo i confini. Camminare — non volare — per capire. Perché per capire serve terra sotto i piedi. Serve tempo.


3. GEORGIA

C’è quiete stamattina. Prima di partire mi prendo qualche minuto. Resto in silenzio a guardare le montagne verdi che circondano la città. Hanno forme morbide, linee distese che mettono tranquillità. È un momento breve, ma basta a farmi ricordare questo posto. 
Riparto in direzione della Georgia e prima di arrivare al confine mi fermo in un piccolo autogrill. Davanti a me si alzano due cime. Apro la mappa, potrebbero essere dalle parti del Dagestan. Le montagne disegnano confini che si intuiscono; è la geografia spesso a decidere dove finisce un mondo e ne comincia un altro.
Sposto lo sguardo e davanti a me vedo un pulmino bianco, un mezzo di trasporto pubblico. Nessuna fermata segnata, nessun orario; basta un cenno e il mezzo si ferma. Raccoglie persone lungo la strada, una dopo l’altra; abitudini lontane dalla mia quotidianità.
Sono quei dettagli che all’apparenza non significano nulla, ma che ti ricordano che sei un ospite. Un osservatore. Il mio sguardo è sempre in allerta, sempre curioso. Soprattutto quando mi avvicino a un confine.
Intorno a me vedo piccoli chioschi che vendono pane fresco. Case basse, alberi da frutta nei cortili, e ovunque un color verde riposante. La strada è stretta, una sola corsia che taglia la campagna senza fretta.
A una quindicina di chilometri dal confine cominciano i primi posti di blocco. Militari immobili sotto il sole, più simbolici che operativi. È come se volessero solo ricordarti che il confine è vicino.
Quasi senza accorgersene compare la fila dei camion. Lunga e paziente. Sono fermi ai lati della strada, in attesa.
Un grande cancello si apre davanti a me. Inizia così la breve traversata della terra di nessuno. 
Lagodekhi è un valico che evoca tempi andati; attraverso questa terra di nessuno, il vuoto fisico tra due mondi. Il tratto è in lieve salita. Avanzo a piedi, zaino in spalla, scalino dopo scalino, fino a un secondo posto di controllo, ancora sotto giurisdizione azera. Niente ombra. Solo cemento, sole e breve attesa.
Poi proseguo, ancora a piedi, lungo un altro tratto scoperto, ancora gradini, ancora calore. Il corridoio che collega le due dogane è fatiscente, pare uscito da un altro secolo. Ferro arrugginito, muri scrostati. Un confine come se ne vedevano davvero una volta, quando il passaggio tra due mondi era anche fisico, concreto. Oggi in Europa non esiste più nulla di simile.
Poi lo sguardo si apre. C'è una valle fluviale ampia e luminosa incorniciata da alte montagne. L’aria cambia.
Il lato georgiano del confine è diverso. L'edificio è nuovo, pulito, ordinato. Devo dire un altro mondo, a pochi metri di distanza.
Ora quindi finisce definitivamente l’Azerbaijan, con le sue moschee e le ampie aree aride, e comincia un’altra storia, cristiana e contadina, fatta di chiese e infiniti vigneti.
La Georgia inizia così, con un cambio netto di paesaggio.

Superato il confine, il Kakheti apre la strada. Ogni villaggio ha la sua uva, ogni famiglia il suo vino. Qui il vino non è solo una bevanda, è memoria, identità, rito antico. Il vino è un collante identitario in un tempo in cui la Georgia, che oscilla tra influenze russe e aspirazioni europee, cerca di ritrovare sé stessa. E lo fa partendo dalle sue radici, dalla terra, dai qvevri, le anfore di terracotta dove il vino riposa sotto terra.
Alla mia destra compare il maestoso Caucaso. 
Per pranzo mi ospita una famiglia del posto. Sono in mezzo alle montagne, immerse in una vegetazione che sembra esplodere da ogni lato. Tutto è verde. Mi fanno accomodare all’ombra sotto una pergola di kiwi. La tavola è già imbandita, i bicchieri colmi, i volti sorridenti. Ci sono dolma, involtini di melanzane, carne alla griglia, e tante altre bontà locali. Alla fine arriva un caffè turco denso, nero, aromatico, tanto atteso, che chiude il pasto.
È la vita di campagna. Quella dove il tempo ha un andamento diverso e ogni pasto è davvero un rito.
Quest’anno, oltre alla sete di luoghi mai visti, oltre alla ricerca di montagne lontane e di spazi aperti nei quali perdersi, c’è anche questo, il cibo. Non solo però come piacere, ma come strumento per entrare davvero in contatto. Per capire. 

Proseguo verso Signagi, arrampicata su una collina a ottocento metri d’altitudine. Il nome, di origine turca, significa “riparo”. E riparo fu davvero, secoli fa, quando diversi popoli scendevano dal Caucaso del Nord per fare saccheggi. La cinta muraria circonda e protegge ancora la città con tante torri; ciascuna era un rifugio. Tutto attorno la vegetazione è rigogliosa.
Camminando per le strade della città vedo due Volga della VAZ. Relitti di un tempo lontano, vestigia di un mondo russo che qui ha lasciato le sue tracce. Le osservo un momento, poi riprendo a camminare. 

Nel pomeriggio, prima di lasciare il Kakheti, visito una cantina. Scendo in un ambiente ricco di qvevri interrati dove il vino fermenta e riposa. Degustare qui non è bere, è ascoltare. Ogni sorso racconta una stagione, un vitigno, una famiglia. 
Riparto verso Tbilisi, la capitale mi aspetta, ma prima che il moderno torni ai miei occhi, lascio che questa campagna mi resti un po’ dentro. La osservo al tramonto e mi chiedo se la mia ricerca del silenzio non necessiti anche di momenti come questo, di convivialità, di calore. Un fronte glaciale o un paese ricco di storia, che racconta come siamo noi esseri umani? Non scelgo l'uno o l'altro; ho bisogno di entrambi. Ho bisogno di vita, e insieme di introspezione. 
Le immagini di uomini seduti sul ciglio della strada, all'ombra di un albero, intenti a raccontarsi piccole cose di ogni giorno, è poesia, è vita.

Come ho scritto, lascio che sia il mio sguardo e non l'intelletto a guidarmi; o almeno, non solo. Come sempre desidero lasciarmi attraversare dalle emozioni. Arrivo informato, ascolto con estremo interesse ciò che riguarda i luoghi che visito, riporto parzialmente alcuni dati, ma poi cerco di fermare i miei stati d'animo, ciò che provo.
Questi giornali di viaggio non nascono per spiegare, né per insegnare. Non sono trattati, non sono reportage. Sono appunti vaganti per ritrovare me stesso fuori dal mio piccolo perimetro. 
Oggi mi sento vivo. È giusto scriverlo. È giusto ricordarlo.
E forse è questo il senso più profondo del viaggio: sentirsi di nuovo presenti, continuare a provare stupore.


Tbilisi è un punto d’incontro tra Oriente e Occidente, tra il mondo cristiano e quello islamico, tra lingue e alfabeti. Si estende lungo le sponde del Mtkvari; tutto attorno colline verdi. In lontananza si scorgono le montagne del Caucaso.
Tbilisi è passata per molte mani, arabi, mongoli, turchi, persiani, russi. Quattro secoli d’emirato, poi la riscossa georgiana con Davit il Costruttore. E ancora invasioni, rivolte, annessioni. Ogni dominazione ha lasciato il segno. La città ha assorbito tutto e lo ha reso proprio.
Lo si vede nella sua geografia religiosa: una moschea accanto a una sinagoga; chiese ortodosse, cattoliche, luterane, georgiane, tracce zoroastriane. Tutto in pochi isolati. Questa è convivenza sedimentata nel tempo.
Le case della città vecchia hanno balconi in legno intagliato che guardano giù verso le strade acciottolate. Le terme sulfuree, persiane, fumano ancora, come mille anni fa; insieme alle più recenti terme del periodo zarista.
Ci sono fortezze, statue e chiese arrampicate sulle rocce del fiume. Da Narikala si domina la città vecchia, dalla statua del re Gorgasali si guarda verso il futuro, verso le nuove funivie che salgono sulle colline.
Sul viale Rustaveli, il cuore ottocentesco della capitale, la città si fa più imperiale; ci sono teatri, palazzi, musei, il parlamento. Tutto parla di stratificazioni, di un’identità costruita nei secoli, ma mai completamente definita (così a me appare).

Tbilisi appare come una città dove la vita scorre più lieve che altrove. Una capitale che sembra sfuggire alle tensioni del suo stesso contesto geografico, quasi un'isola quieta nel cuore di un Caucaso irrequieto. Si avverte un benessere diffuso, una certa ricchezza che affiora nei caffè, nei palazzi, nei parchi, nei vicoli.
Accoglie con naturalezza; armeni, azeri, russi, ebrei, persiani, arabi di passaggio trovano posto senza attriti apparenti. Una città che metabolizza le differenze e le restituisce in forma di convivenza.
Ma questa vocazione all’apertura ha un rovescio. Tbilisi a tratti sembra rifugiarsi in una vivacità mondana che attenua il peso della sua memoria e del suo passato. È viva, certo, ma in alcuni quartieri pare cercare soprattutto il proprio riflesso più gradevole.
Questa leggerezza, se da un lato la rende ospitale, dall’altro le toglie un pò di quella durezza che dà spessore alle città di frontiera. È come se si fosse guadagnata il diritto a una tregua, ma ne pagasse in cambio un certo distacco dalla verità più profonda; dalla sua vera natura. 

Più mi addentro in questa terra, più mi rendo conto di quanto la storia qui non sia stratificata, ma forse è meglio dire compressa. Spinge idealmente con forza verso la superficie. Tutti sono passati da qui, e tutti hanno lasciato qualcosa. 
La Georgia orientale fu assorbita dall’Impero russo nel 1801, quando lo zar Paolo decise che era tempo di mettere ordine nei territori caucasici. Da lì in poi la mappa si ridisegnò in fretta. Nel 1828 anche le regioni persiane a sud del Caucaso, tra le quali l’attuale Azerbaigian, finirono sotto l’orbita di San Pietroburgo.
Fu l’inizio di un secolo di ridefinizioni. Imperi che si allargavano senza una reale solidità. E infatti nel 1918 l’Impero russo crollò di colpo e le schegge si sparpagliarono cercando di diventare stati. Tre repubbliche, Georgia, Armenia e Azerbaigian, si proclamarono indipendenti. Durò poco. Nel 1922 Stalin, georgiano di nascita, le unì dentro un’unica cornice, la Repubblica Federativa Transcaucasica. Una struttura fragile che sopravvisse fino al 1936.
Tbilisi nel frattempo crebbe. C’erano più armeni che georgiani sotto gli zar. Gli armeni gestivano commerci, botteghe, librerie. Le vie erano un miscuglio di accenti, si parlava russo, georgiano, persiano. O tutto insieme.
Fu solo dagli anni Trenta che la città cambiò fisionomia; i georgiani divennero maggioranza, e con loro cambiò la lingua e la memoria urbana.
I balconi in legno intagliato non sono solo folclore, raccontano un’estetica venuta da Sud. Sono frutto di una commistione orientale. Persia, innanzitutto.
Nel tessuto urbano convivono chiese di ogni confessione, come già scritto.
C’è quella luterana, costruita dai tedeschi del Volga arrivati nel 1817, che fondarono un intero quartiere chiamato Neu-Tiflis. Case solide, cortili ordinati, un pezzo di Germania incastonato tra il Caucaso e l’Asia.
C’è quella cattolica, di rito latino e armeno. E poi l'ortodossia georgiana, millenaria. Oriente e Occidente si mescolano e si confondono.
Meno di cinquecento chilometri separano l’El´brus dall’Ararat. Due colossi che non si vedono mai, ma che delimitano questo mondo conteso e tormentato. Dentro questo spazio la storia non si è mai fermata.

Riprendo la strada attraverso la provincia di Kartli, sono nel cuore della Georgia. È una terra molto fertile dove sorgono le due capitali, quella moderna, Tbilisi, e quella antica, Mtskheta, non distanti tra loro.
Dall'alto del Monastero di Jvari, della Santa Croce, si vede la città, Mtskheta, abbracciata dai fiumi Mtkvari e Aragvi che qui confluiscono. Le colline sono coperte di boschi e il paesaggio è vasto, ricco di vegetazione. Scendo verso la Cattedrale di Svetitskhoveli dove, si dice, giaccia la tunica di Cristo. 
Il viaggio procede, sono calato in ambienti rurali e collinari, e la mia mente spazia, osservo i paesaggi e leggo articoli che raccontano della vita in Georgia.
È un giorno particolare per questo paese. Ricorre l'anniversario della guerra lampo del 2008, scoppiata proprio in questi giorni d'agosto. Diciassette anni fa. Una ferita ancora viva. Cinque giorni di combattimenti con la Russia che lasciarono segni profondi nelle regioni di confine, soprattutto a Gori che fu colpita in pieno. La guerra del 2008 non fu solo l’ennesima prova di forza russa. Nacque anche da una scelta azzardata del governo georgiano che cercò di piegare con le armi l’Ossezia del Sud e finì per offrire a Mosca il pretesto che aspettava. A Gori questo si sente ancora. La città ricorda le bombe, e soprattutto l’imprudenza. Neil MacGregor, parlando di Bisanzio, scrive che gli imperi in crisi spesso si salvano inventando miti, racconti che li facciano sembrare invincibili. Forse anche qui, nel 2008, si è inseguito un mito, quello di poter resistere a un gigante, aggrappandosi all’orgoglio nazionale. Ma i miti hanno un costo, e qui il costo sono state le case bruciate e i profughi sulle strade.

Osservo i piccoli villaggi, ogni casa ha i suoi alberi da frutta, la vita ora sembra tranquilla, ma qui i conflitti ci sono stati; e ancora oggi non sono risolti. Incrocio una mandria di mucche lungo la strada con il suo pastore, un mondo antico che sembra vivere oltre i conflitti, in un mondo a parte.
Più a ovest risalgo la piana fino a Uplistsikhe, città scavata nella roccia, nascosta tra gli anfratti della storia, risalente al terzo millennio avanti cristo. Strade antiche, templi dimenticati, cantine per il vino. Un mondo incastonato nella pietra che osserva il presente, inquieto, dal suo passato (altrettanto inquieto?).

Arrivo a Gori, città natale di Stalin, e visito il museo a lui dedicato. Mi interrogo sul fatto che sia una meta turistica. Milioni di morti, deportazioni, repressione sistematica. Eppure fuori, nel piazzale, vedo bambini nei passeggini, turisti in infradito, gelati, zaini colorati. Il contrasto è netto. Cammino per le sale cercando di tenere le distanze. Più che un'esperienza è un'osservazione.
Mi sorprende come in Georgia le epoche si sovrappongano continuamente. L’antico, il sovietico, il post-sovietico, il globale. Tutto in uno stesso sguardo. E noi esseri umani ci muoviamo dentro questa stratificazione; ci scontriamo, ci difendiamo, ci imponiamo.
Si parla di geopolitica, ma la verità è più semplice, quasi brutale. Siamo animali territoriali. Predatori con mappe in mano. Guardando a ciò che succede nel Caucaso, fatico a credere che ci saranno lunghe tregue. I conflitti non sono un’eccezione; sono piuttosto una condizione di fondo. Sfollati, confini armati, minoranze sotto pressione. È la normalità di questa regione, ed è per questo che la convivenza interetnica sembra restare un'utopia.
Sono nei pressi del Surami Pass, nella catena del Likhi, a 950 metri di altitudine. Comincia il tunnel di Rikoti, 1750 metri di galleria che separano — o uniscono — l’antica Iberia alla Colchide. Est e Ovest della Georgia. È un confine naturale, ma anche simbolico. Da qui in poi cambia tutto, luce, vegetazione, inflessioni linguistiche.
Attraversare il tunnel è come varcare una soglia.
La montagna, ancora una volta, divide. Crea barriere. Protegge e isola.
Non è un caso se qui sono nati così tanti gruppi, identità, dialetti. Il Caucaso è uno dei mosaici etnici più complessi del pianeta. Ossezia del Nord, Ossezia del Sud, Abchazia, Nagornyj Karabach; nomi che non sono solo geografia, ma problemi irrisolti.
Le tensioni qui non sono semplici eredità sovietiche.
Il passato sovietico è solo una parte. Il resto lo fa la montagna, uno spazio difficile da attraversare, che invece di unire, accentua separazioni, radica le differenze, irrigidisce le appartenenze.
Mi accorgo che è anche per questo che sono venuto. Per capire se la montagna (che amo, che cerco sempre) è davvero un rifugio o se invece è una fucina di conflitti. Forse è entrambe le cose.
Il cielo si è fatto scuro. Nuvole compatte cariche di umidità si muovono sulle creste.

Sotto di me scorre la ferrovia transcaucasica, costruita nel 1883, la prima ad attraversare da Est a Ovest. Un’opera d’ingegneria, ma anche un tentativo di collegare mondi che hanno sempre preferito restare separati. Guardo la mappa e vedo il nome di un piccolo villaggio qui vicino, Grigalati. La coincidenza mi colpisce. 
Ho appena concluso un disco, Drift, con un caro amico, Francis Gri, un lavoro che parla di questo tempo instabile, di un presente che vive costantemente in bilico tra ciò che eravamo e ciò che non riusciamo più a essere. Un disco che si lascia trascinare dai cambiamenti, dalle crepe che si aprono sotto i nostri piedi, da un mondo che sembra vacillare. Uscirà a nome Gri Galati. Parla della stessa instabilità che vedo in questi luoghi, dove i confini non trovano un posto sicuro dove ancorarsi... Mi lascio portare dalla corrente del viaggio...

Arrivo a Kutaisi per la notte. La seconda città del paese, ex capitale della Colchide.
I quartieri centrali hanno facciate in stile zarista e retaggi Belle Époque. Nella prima periferia tutto cambia. Blocchi sovietici e file di palazzi grigi.
Poco lontano, a Bagdadi, è nato Majakovskij, figlio di questa terra tagliata in più parti.

Visito la cattedrale di Bagrati dove raccolgo un pò di suoni che mi catturano, ed esco da Kutaisi che resta alle mie spalle, sotto la pioggia, sotto cieli grigi, e temporali.

Nelle città vedo cani che vagano senza padroni. Camminano piano, come in attesa di qualcosa che non arriva, o restano distesi al lato della strada, immobili, annoiati. Anche oggi ne incrocio, frugano tra i rifiuti, seguono un passante, cercano compagnia. Ne ho visti anche in Azerbaijan. Mi sto abituando alla loro presenza, a vederli raminghi per le strade. Dipendono da noi, animali territoriali e predatori che tracciano confini. Ci amano senza riserve. Non so se ci meritiamo un amore così cieco. 
Visito il monastero di Motsameta, costruito in una valle verde. La nebbia e il vapore che sale dalle colline donano al luogo una luce sospesa. Dalla strada si intravede il Caucaso minore, la catena che scende verso la Turchia. Io continuo a nord, verso il Caucaso maggiore.
Attraverso Zugdidi, in Mingrelia; poco distante da qui c'è il confine con l'Abchazia. Le scritte in alfabeto georgiano ormai non mi sorprendono più, ma restano indecifrabili. Questo mi tiene in una posizione di estraneità; osservo, ma inevitabilmente resto fuori. Mi chiedo come doveva essere qui nel 1991. All'epoca, da casa mia, che percezione ho avuto? Forse nulla di proporzionato all’evento. Qui dev’essere stato più di un terremoto, un cambio d’epoca netto, violento.
Le case hanno tutte un giardino. Le tubature gialle del gas corrono all’esterno, visibili, un filo costante che mi accompagna da giorni. Non sto solo andando verso la meta di oggi. Sto cercando di capire questi paesi di montagna, questo mondo post-sovietico nel quale l’eredità dell’URSS è ancora nei palazzi, negli arredi urbani, nella mentalità. Ma questa città, con le sue villette ordinate, sembra già altrove.


Mangio cibo locale prima della salita verso lo Svaneti. Fino a pochi decenni fa non esisteva una strada; i russi hanno aperto il collegamento, prima erano valli isolate.
Ed ecco il momento che aspettavo, le montagne del Caucaso. È solo un assaggio, lo so, ma ci arrivo come volevo, con un’idea più chiara del contesto. Case in pietra, poi sempre più boschi. Le montagne si avvicinano, alte, fitte di vegetazione. Salgo, la valle si stringe, sotto di me un vuoto profondo.
Dalle terre aride dell’Azerbaijan alle cime del Caucaso, tra Asia ed Europa; difficile non pensare a un sogno. 
La strada si fa stretta e si infila nel canyon dell’Enguri. È l’unico passaggio verso lo Svaneti, una specie di corridoio naturale che obbliga a rallentare e a pensare.
Quanta bellezza. 

Sono nel cuore del viaggio, davanti alle montagne alte del Caucaso. Era questo il punto che aspettavo di raggiungere. Qui le cime non sono solo uno sfondo, sono confini naturali, rifugi per chi scappa, o barriere per chi vuole passare. Hanno deciso la storia di chi vive da queste parti, nel bene e nel male. Non puoi guardarle senza pensare a ciò che hanno protetto e a ciò che hanno isolato. Ora che ne capisco il peso posso anche permettermi di godermele per quello che sono, montagne imponenti.
Seguo il canyon scavato dal fiume Enguri, l’unico varco verso una regione che è rimasta a lungo separata dal resto del mondo. Qui vive il popolo svano, con una lingua che il resto dei georgiani non capisce. 
Osservo incantato il grande ghiacciaio Laila, alto quasi 4000 metri. 
Mestia appare nel tardo pomeriggio, circondata da montagne che sfiorano i cinquemila metri. Ogni villaggio ha le sue torri di pietra, costruite tra il IX e il XIII secolo. Non sono rovine, sono parte del paesaggio e della memoria. Servivano a difendersi e a comunicare tra villaggi. La gente qui dice di non essere mai stata conquistata. Vero o leggenda, queste torri spiegano bene il carattere di chi vive in cima al Caucaso.

Il sole scivola dietro le creste. La luce accarezza i tetti e le torri. Il paesaggio cambia volto.
Per un attimo sembra fiaba. La durezza resta, ma nascosta.


Proseguo oltre Mestia, la strada sale tra le curve e Ushguli appare dopo un paio d'ore. Qui si può arrivare in macchina o con dei fuoristrada; altrimenti, volendo, si può salire in bicicletta, ma ci vuole fiato. Sono a 2.200 metri, nel cuore della regione dello Svaneti, davanti al massiccio dello Shkhara che incombe con i suoi 5.201 metri di ghiaccio e roccia.
Il ghiacciaio è davvero imponente; sarà lui il simbolo, per me, di questo viaggio. La grandezza di fronte alla nostra fragilità. Noi esseri piccoli, fragili. Lui fiero, bianco, grande, prima coperto dalle nuvole e poi visibile in tutto il suo splendore.
Il versante che osservo scende con pareti verticali, incise da canaloni dove il ghiaccio si spezza in seracchi. Più in basso i pendii sono fatti di detriti e pietraia, come se questo colosso avesse progressivamente lasciato cadere frammenti di sé.
Questa enorme montagna marca un confine fisico tra Georgia e Russia.
Mi fermo.
Respiro.
Assorbo.

Eccolo, il silenzio.


Il villaggio sembra un presepe medievale, torri di pietra piantate nei prati alpini, fiori gialli e viola ai piedi delle case, il profilo del monte sempre dietro, come un guardiano. Più in alto, la chiesa di Lamaria del XII secolo custodisce antichi affreschi che hanno attraversato secoli di neve e di vento. A Ushguli il mondo sembra davvero finire. La strada, di fango, pietra e neve per otto mesi l’anno, finisce sotto l'imponente montagna di ghiaccio; e lì si ferma. Qui Mariam Khatchvani ha girato Dede. Nata e cresciuta in questo minuscolo villaggio, questa regista ha trovato la forza di raccontare la sua gente, le sue leggi antiche, il peso e la bellezza di vivere letteralmente ai margini. Dal nulla, da un villaggio dimenticato, ha tirato fuori un piccolo miracolo, un film che ha fatto il giro dei festival, applaudito dalla critica. A Ushguli viene proposto in due piccoli cinema.
Che incredibile forza di volontà. 

Lungo la strada vedo altri villaggi con case in pietra e ardesia.
In una di queste un uomo è a terra, circondato da vicini e parenti. Qualcuno cerca di rianimarlo. Lo scuotono. Muovono questo corpo senza più vita come fosse un sacco. Un uomo accanto a me piange. Vado oltre, con una sensazione di tristezza. 
In quel cortile una vita che si spegne. Intorno turisti che continuano le loro visite, scattano foto alle torri, bambini corrono nei vicoli, una donna stende la biancheria. La scena è davvero un paradosso. La morte immobile in mezzo al lento ritmo del villaggio, sotto la montagna eterna.
Riparto con un senso di vuoto. L’ultimo sguardo al ghiacciaio, bianco, immenso, indifferente; sotto di lui la comunità radunata attorno all’uomo. 
Nel momento di maggiore fragilità, è stata proprio la sua comunità a stringersi intorno a lui, a tentare di salvarlo. Da noi, invece, la morte è spesso un fatto isolato, relegato negli ospedali, allontanato da noi come qualcosa di estraneo. Se un infarto dovesse colpire qualcuno in mezzo a una strada delle nostre città, la reazione probabilmente sarebbe di paura, disagio; o di morbosa curiosità. Ma quel contatto diretto, quell’essere soccorsi dalla propria comunità, è qualcosa che oggi fatico a immaginare. Non è questione di giusto o sbagliato, viviamo semplicemente in mondi diversi.
In quei momenti assolutamente normali, fatti di gesti quotidiani, di bambini che giocano, c’è forse una diversa misura della morte; non nascosta, non esclusa, ma parte di un’esistenza che continua, nella sua crudezza e nel suo realismo. Una morte meno solitaria, più radicata nel contesto sociale, anche se il dolore resta immutato.

Quest’anno la montagna mi ha parlato in modo diverso. Non solo immensità, non solo il bianco dei ghiacci. Ai piedi del grande monte ho visto la fragilità nuda della vita. La morte che irrompe in un cortile; mentre intorno scorre la quotidianità; mentre sopra incombe il ghiacciaio, indifferente. È come se il monte, eterno e muto, fosse lo sfondo necessario per capire quanto siamo piccoli, quanto basta poco a spezzare un respiro. Non mi ha parlato di conquista o di fatica, di immensità, ma della condizione umana, un filo molto, molto sottile che si spezza senza preavviso. Il silenzio eterno.

Rifletto sul fatto che con il film Dede la regista Khatchvani ha raccontato un aspetto difficile di questa comunità, fatta di regole ferree, di vita scandita da tradizioni che non lasciano scampo. È il paradosso delle comunità isolate, solidali, ma anche rigide. Sicuramente calde nell’abbraccio, ma dure nel controllo. Forse alla fine è questo ciò che, riflettendo, ho sentito qui, la comunità come forza ambivalente. Questo è un luogo che protegge, ma che decide. Un mondo che dà, ma anche che trattiene.
Noi abbiamo perso quasi del tutto questa dimensione collettiva; qui forse la vivono fino in fondo, con tutte le sue contraddizioni. E forse la verità sta nel mezzo, tra la solitudine che ci separa e la tradizione che ci stringe.

All’inizio del viaggio avevo un’immagine un pò indistinta di questi luoghi, montagne e monasteri, musiche arcane, popoli antichi. Era una specie di sogno a tinte chiare. Ora, a metà strada, quel disegno iniziale non è scomparso, ma si è trasformato. Alle linee armoniose si sono aggiunti tratti più decisi, a volte spigolosi. Ho incontrato la bellezza che immaginavo, ma vedo anche il peso della storia, le tensioni che corrono non proprio invisibili lungo i confini, le ferite ancora aperte. La Transcaucasia è un territorio difficile che non si lascia ridurre a un'immagine univoca. Il mio sguardo, giorno dopo giorno, si fa più vigile, più consapevole.

Parto verso Batumi e ripercorro un tratto della strada dell’andata. L’Ushba si staglia nel cielo, quasi quattromilacinquecento metri di roccia e neve. La valle è un corridoio grandioso, chiuso da catene che sembrano muri infiniti. Ampia, aperta, luminosa. I boschi sono un mare verde, sono fitti.
Questa è la parte del viaggio che resterà impressa, la porterò nei pensieri.
Il Caucaso è frontiera di tutto, tra Europa e Asia, tra oriente e occidente, tra cristianesimo e islam, tra il mar Nero e il Caspio. Qui si sono sfiorati e scontrati russi, persiani e turchi. Gli arabi lo chiamavano djabal al-asun, “la montagna delle lingue”. In nessun altro luogo al mondo, in uno spazio così ristretto, si parlano così tante lingue.
Lascio la Georgia delle montagne, dove la lingua è unica e antica, e scendo verso la provincia di Samtskhe-Javakheti, foreste alte e pianure d’erba che ondeggiano al vento.
Visito velocemente da fuori il palazzo Dadiani, dimora ottocentesca dell’ultima dinastia che governò il principato di Samegrelo. Poi di nuovo in viaggio. Le cime bianche del Caucaso svaniscono alle spalle e all’orizzonte appare il mare. Stavolta è il Nero, con una vegetazione ricca di palme, oleandri, fichi; smisurata, esplosiva. Entro nell’orto botanico e mi sembra di passare una soglia.
Batumi è un'altra versione della Georgia; ci sono torri di vetro accanto a viali ottocenteschi, traffico, una piccola piazza che replica le piazze italiane. È lontana anni luce dai paesi di montagna che ho visto, ma ha un suo, diverso, fascino.  
Batumi e Trieste avevano un collegamento via mare, in tempi lontani, quando entrambe le città coprivano una posizione centrale ed erano nodi importanti, collegati tra loro. Lo si può evincere dai tanti edifici di culto; entrambe le città erano porti di mare che mettevano in contatto uomini di diverse terre e fedi. A Batumi vedo dall'esterno la sinagoga, la moschea, la chiesa cattolica, quella armena, quella greco-ortodossa; una varietà simile a Tbilisi.

Parto verso est, lungo la grande piana che si stende tra il muro del Grande Caucaso e quello più basso, ma non meno severo, del Caucaso Minore. Questa seconda catena non ha la verticalità di quella settentrionale. Parte dalla costa tra Turchia e Georgia, piega verso sud e attraversa tutta l’Armenia. 
Nel tratto che percorro vedo colline, pascoli, boschi. Un paesaggio bucolico, soprattutto in prossimità di Borgiomi, dove ci sono sorgenti termali, dimore zariste, e una mescolanza di architetture, case georgiane con balconi in legno e vetrate accanto a edifici d’impronta russa. Qui nacque una delle prime località di villeggiatura del Caucaso.
Il viaggio è lungo. Lo spezzo con un pranzo in una trattoria lungo la strada; mangio pane caldo, verdure, carne, e i loro ravioli ripieni di brodo e carne.
Poi ancora chilometri, è un giorno dedicato a un lungo spostamento, mi perdo in letture, sono calato ormai nel viaggio e in questi territori. Questi sono giorni che servono per assimilare ed elaborare ciò che si è visto, per calarsi nel viaggio, per prendere tempo, per rallentare un pò. È il tempo in cui si comincia a capire, a unire tutte le parti.
Viaggiare è anche questo, è imparare a non riempire ogni momento, a lasciare che il percorso faccia il suo lavoro. Con la luce che scivola verso il tramonto attraverso una zona di colline e ampi spazi verdi, il paesaggio si accende di una tonalità calda, sembra quasi dorata a quest'ora del giorno. La giornata scorre lenta e i pensieri vagano, penso a chi lavora questi campi, a chi abita nelle case sparse, alle strade che si perdono oltre l’orizzonte. È un ritmo diverso, più lento, nel quale hai assoluta consapevolezza del fatto che il viaggio non è fatto di partenze e arrivi, ma esclusivamente di lunghi attraversamenti.

Leggo Borders di Erika Fatland mentre proseguo verso sud. Il suo racconto, lungo il perimetro della Russia, è una continua serie di confini, linee che sono veri e propri strappi che dividono famiglie, che cambiano lingue. Alcuni li attraversano ogni giorno senza pensarci, altri non li hanno mai varcati, o non li possono varcare; la loro vita è plasmata da ciò che separa.
In Transcaucasia i confini sono più radicati che altrove. Le montagne li hanno tracciati prima delle mappe. Hanno guidato eserciti, isolato villaggi. Le guerre e i trattati li hanno spostati, allargati, ristretti, ma non cancellati. Mentre il paesaggio si apre su queste meravigliose colline e vallate, penso che il viaggio in questi luoghi sia anche confrontarsi con cicatrici, molte, che sono ancora aperte, e provare a capire come si vive quando la propria vita sembra appartenere anche ad altri e non solo a sé stessi.

Arrivo a Akhaltsikhe in serata, per poi ripartire, la mattina dopo, verso sud, verso Vardzia.
Il paesaggio cambia, si aprono colline larghe coperte da una vegetazione rada.
La strada scivola tra colline che si allargano e si distendono; mi preparano a un nuovo capitolo del viaggio. Il fiume Kura taglia la valle che alterna prati verdi e distese gialle con alture morbide, riposanti.
A Khertvisi la fortezza del XVII secolo veglia ancora sul fiume. Da lì scendo verso Gulsunda e Tmogvistsikhe, finché non appare Vardzia. 

La città rupestre sembra un alveare scavato nella montagna, affacciata su una valle del Mtkvari sorprendentemente rigogliosa. È un colosso di pietra che per un breve momento fu il cuore di un regno. Fu la regina Tamar, figlia di Giorgi III, a volere questo insediamento intorno al 1180. Fu prima fortezza, poi città. In pochi decenni ospitò decine di migliaia di persone. Un terremoto avvenuto nel 1282 e il saccheggio persiano del 1551 ne lasciarono in piedi solo una parte. Oggi restano un centinaio di abitazioni, alcune chiese, e soprattutto la Chiesa dell’Assunzione, affrescata nel 1185. Un gioiello incastonato nella roccia, custodito da pochi monaci.
Forse è uno dei momenti più belli di questo viaggio, insieme alla vista della montagna di ghiaccio di Ushguli e a una serata a Tbilisi, al Fabrika, in compagnia di Mikheil Aidinov, giornalista e guida di un itinerario tra i luoghi di culto della città.
Riprendo la strada verso Akhalkalaki, sull’altopiano di Javakheti, a pochi chilometri dall’Armenia. Qui si parla armeno. L’altopiano è nudo e vasto. Lo chiamano la “Siberia del Caucaso” per gli inverni durissimi, quando la neve copre tutto quello che oggi vedo giallo e aperto.
A Gorelovka incontro i discendenti dei Doukhobors, “guerrieri dello spirito” fuggiti dalla Russia nel 1841 per non piegarsi né allo zar né al clero. Vivono ancora in case che ricordano le isbe, con stufe centrali, tetti di pietra ed erba, tessuti con antiche simbologie slave. Un mondo sospeso, davvero fuori dal tempo.
Questi spazi di confine tra Georgia e Armenia sono vasti e solitari. Trasmettono freddo e desolazione, ma al tempo stesso mi riempiono, come se avessero una forza che scalda da dentro.
Attraverso il valico, a duemila metri di quota, e entro in Armenia. Terra antica, segnata da molte, moltissime ferite. Il paesaggio resta ampio e arido, ocra e ondulato. Ma la vegetazione lussureggiante della Georgia ora è solo un ricordo.
Gyumri mi accoglie come la prima città di un nuovo capitolo.


4. ARMENIA

Questa mattina ho l'occasione di incontrare Antonio Montalto, un console che da trent’anni vive in Armenia. Trent’anni nei quali ha visto passare governi, crisi, rinascite, e nei quali ha imparato a leggere questo Paese dall’interno. La sua esperienza non è solo un racconto di vita professionale, è una breve e ricca esperienza di vita che mi fa riconsiderare punti fermi e certezze.
Viaggiare, il viaggio vero intendo, non è collezionare tappe o immagini. È lasciare che un incontro, una storia, una prospettiva diversa continuino a interrogarti molto dopo. È imparare a guardare oltre i confini, qualsiasi confine, geografico, culturale, mentale.
Da qui, e da giorni ormai, l’Europa mi appare diversa. La vedo avvitarsi su se stessa, smarrire il ruolo centrale che ha avuto per secoli. Non si muove in salita, non cerca una vetta, rotola per inerzia verso una presunta centralità che non sa più sostenere con un vero contenuto. Avanza senza veri obiettivi, ripiegata su se stessa, incapace di alzare lo sguardo oltre i propri dibattiti interni.
Quest’anno osservare il mondo da altre prospettive per me è un esercizio più ricco del solito. Mi costringe a rimettere in discussione le mie mappe mentali, a capire che il centro non è mai dove crediamo.

Gyumri è una città scura, come se fosse emersa da un’eruzione e fosse rimasta lì a raffreddarsi per secoli. Così mi piace ricordarla e immaginarla. È tutta in basalto. Le case, le chiese, tutto porta il segno della lava solidificata. Ma qui la pietra non è solo memoria di un’eruzione lontana, è il simbolo di un’energia che non si è spenta. 

Camminando per queste città, a partire da Baku, sembra di stare su un letto di lava non ancora rappresa, sopra un calore ancora vivo. Il territorio sobbolle, è aperto come una fessura che non si chiude mai del tutto. Qui la stabilità è un’illusione; le tensioni restano sotto, pronte a riemergere.

Il Museo Dzitoghtsyan occupa una casa signorile dell’Ottocento fatta costruire da una famiglia di mercanti che si arricchì con il commercio tra il Caucaso e l’Impero russo. Oggi è un museo in un palazzo di pietra scura e legno. Vedo mobili europei accanto a tappeti persiani, fotografie di uomini con abiti di taglio russo. Un secolo e mezzo fa la città era un crocevia, c'erano viaggiatori, artigiani, soldati, profughi. 

Scendo verso sud, verso Erevan. Il paesaggio si apre in distese brulle, segnate solo da colline appuntite che emergono dall’altopiano come tante isole.
In lontananza appare l’Ararat. Si alza di quattro chilometri dalla piana, a settanta chilometri da qui, oltre il confine, in Turchia. È immenso, visibile in tutta la sua mole, anche se la cima si perde tra nubi e un velo di foschia. Non ha nulla delle nostre Alpi, non è incastonato in una catena, ma domina un paesaggio arido, quasi senza vegetazione, che lo rende ancora più solitario e assoluto.

A dire il vero l’Armenia è tutta una montagna. Dorsali che si rincorrono, coni vulcanici spenti e cime che sfiorano i quattromila. L'Aragats domina con le sue punte, poi l'Azhdahak, il Kaputjugh, e decine di vette dai nomi altrettanto spigolosi che vedo nella mia mappa: Spitakasar, Vardenis, Tsghuk. È un paese nato dal fuoco, ancora scosso da terremoti e vulcani silenti che sembrano dormire.

"Impossibile visitare l’odierna Erevan, con il leggendario Monte Ararat che la sorveglia dall’altra parte del conteso confine tra Armenia e Turchia, senza percepire la funzione che questo paesaggio, la memoria e la morte continuano a esercitare nella coscienza nazionale armena", scrive Charles King.

Guardare quel monte da Erevan, vederlo in un altro stato, al di là di un confine che separa due nazioni, ti fa riflettere sulla potenza di quel simbolo, che in qualche modo sembra sfidare l’idea stessa di appartenenza. Almeno è così che voglio immaginarlo. Non appartiene a nessuno, solo a sé stesso. 

Arrivo a Hovhannavank dove c'è una chiesa cruciforme con un'alta cupola. Ai lati dell'atrio i soliti khachkar, le croci di pietra. Oggi è un giorno di festa, si celebrano dei matrimoni; più coppie si alternano davanti all’altare.
Il monastero di Saghmosavank sorge sul bordo di un canyon, lungo, lunghissimo. È lo stesso canyon che si vedeva già prima a Hovhannavank. 
Sotto il canyon, sopra l'Ararat. Un'immagine che spiega il luogo più delle parole, una lunga ferita nella terra e una montagna altissima che si erge sull'altopiano.
Il Parco delle Lettere appare in questo paesaggio vuoto. Blocchi di tufo scolpiti; ognuno è una lettera dell’alfabeto armeno. In mezzo il monumento a Mesrop Mashtots, il monaco che nel V secolo inventò l’alfabeto, e con esso mise in salvo l’identità di un popolo circondato da grandi imperi. 

La strada per Erevan scende lenta, attraversa villaggi e campi. Il sole cala dietro l’Ararat. Ervan, città dove visse Paradžanov.
È un paesaggio al quale devo abituarmi. Siamo a mille metri di altitudine, ma l’altitudine da sola non lo racconta, non basta per definirlo. Ho attraversato tre paesi, diversi tra loro in tutto. Qui il protagonista è il Monte Ararat, alto, regale, maestoso, pur appartenendo alla Turchia.
Entro a Erevan, terza capitale dopo Baku e Tbilisi. Cosa mi racconterà questa città?
I pensieri si fanno più densi. Continuo a descrivere ciò che vedo, ma intanto mi lascio assorbire da questi territori difficili e complessi, dove ogni confine porta il segno di ferite antiche e recenti.
Erevan cresce veloce; cantieri di grattacieli, quartieri che si allungano verso le montagne. Le cime restano a guardare, immobili, mentre noi esseri umani sottraiamo spazio alla terra. Il canyon, profondo, taglia la città.
Il centro ha piazze ampie e monumentali; sembrano fatte per impressionare.

Per Eugenio Turri il silenzio è la chiave di lettura del paesaggio. Non è semplice quiete contemplativa, e (forse) non lo è nemmeno in questo viaggio. Il silenzio è la condizione per riconoscere nei luoghi le stratificazioni del tempo, i detriti della storia, e la presenza immutata della natura. È ciò che ci riporta alla misura delle cose e a un senso di verità, al di là del rumore del presente che tende a cancellare ogni traccia.

Qui in Transcaucasia lo vedo con i miei occhi. Ogni epoca ha lasciato un segno, i petroglifi, i khachkar, i balconi in legno di Tbilisi, i condomini sovietici, questi grattacieli nuovi. Tutto si accumula, nulla scompare del tutto. 
Capisco allora che, almeno quest'anno, la mia ricerca del silenzio non è fuga. È un modo per leggere i segni, per sentire sotto i miei piedi il deposito del tempo, e provare a dare un senso al nostro (al mio) stare nel mondo.
Il silenzio è questo, è ascoltare ciò che resta. È ascoltare. 


Erevan. Capitale dal 1918, città che sorprende per l’ampiezza dei viali e il tufo rosa che colora i palazzi. Al mattino salgo verso la Madre Armenia, un colosso di metallo che ha preso il posto di una statua di Stalin e che ora osserva la città. Davanti a lei il Monte Ararat, non proprio nitido, ma imponente, quasi irreale.
Scendo verso l'ampia Piazza della Repubblica, cuore della città, impreziosita da fontane e grandi palazzi. Passo accanto al Teatro dell’Opera e risalgo i gradoni della Cascade, enorme scalinata che lega la città bassa al Parco della Vittoria. Sempre lei, la Madre Armenia, ritorna a guardarmi dall’alto.
Al Matenadaran mi perdo tra manoscritti miniati, pigmenti che sembrano appena stesi sulle pergamene. Questi colori raccontano un’altra Armenia, fatta di memoria e di carta sopravvissuta alle intemperie dei secoli. Nel Museo di Storia Nazionale cerco di decifrare la mappa di un paese che nel tempo si è allargato e ristretto; ora è rimasto davvero un frammento, al termine di infinite divisioni. Il Museo di Storia condivide l'edificio con la Galleria Nazionale; salendo ai piani alti si entra letteralmente in un altro mondo. Le sale custodiscono tesori che non ci si aspetterebbe di trovare a Erevan. Ci sono tele italiane, riconosco un Tintoretto, un Guardi, raccontano Venezia sotto un’altra luce. Ci sono i fiamminghi, Rubens e Van Goyen, con i loro paesaggi che sanno di mari del Nord. Ma poi ci sono sale che ospitano l’anima artistica armena, e in altre ancora compaiono pittori russi, soprattutto Aivazovsky, con le sue maree di luce, e i tramonti infuocati.

È uno di quei luoghi dove il viaggio ti sorprende, perché ti accorgi che la storia dell’Armenia non si legge solo nelle pietre antiche o nei monasteri sperduti, ma anche in queste collezioni, frutto di relazioni che hanno portato l’Europa fino al Caucaso. Esco con la sensazione che Erevan non sia solo periferia di un impero scomparso, ma crocevia capace di trattenere memorie che vengono da lontano.

Poi il memoriale di Tsitsernakaberd. Qui la città si ferma. Le pietre disposte in cerchio, la fiamma al centro, e intorno un silenzio che non ha bisogno di essere spiegato. Non c’è guida né libro che possa prepararti. Lo senti nello stomaco, è un vuoto che resta.

La città corre veloce, sembra non fermarsi mai. I cantieri sono ovunque, i grattacieli spuntano dal nulla e ridefiniscono lo skyline. Non è solo voglia di modernità. A spingere c’è anche un mercato che negli ultimi anni si è spostato qui, quello dei gioielli. Oro e diamanti che un tempo passavano da Mosca oggi trovano a Erevan una nuova via, un corridoio che porta fino a Dubai, e fino all’Asia. È uno dei tanti fili invisibili che spiegano questo fermento che si respira per strada. 
Erevan cresce in fretta, ma ha un’energia diversa da quella di Baku, città del petrolio e dei contrasti. Diversa anche da Tbilisi, che vive di leggerezza e apertura, ponte tra Oriente e Occidente.
Erevan ha una sua durezza che non nega il dolore del passato, ma che ora si veste di grattacieli e viali larghi, come a dire che il futuro non si può più rinviare. È forse la più compatta delle tre capitali caucasiche, la più legata a un’identità precisa; è armena fino in fondo, è orgogliosa di esserlo. Ho l’impressione che ogni città del Caucaso sia lo specchio fedele del suo Paese. Ognuna racconta la propria storia con i segni che porta addosso. Erevan con la sua forza ostinata, Baku con il suo petrolio, Tbilisi e il suo essere ponte tra mondi. Tre città, tre racconti, nonostante i confini che le hanno sempre ferite.


La strada scava tra le montagne e in lontananza compare Geghard. Non è costruito ma scavato, è un monastero che sembra far parte dalla roccia stessa. Cappelle come grotte, acque che sgorgano dall’interno della montagna. Fuori ci sono le croci di pietra, i khachkar, allineate come un piccolo esercito immobile.
Pochi chilometri più avanti la scena cambia. A Garni ci sono colonne ioniche; un rettangolo di pietra, intatto, che ricorda la Grecia, è l'unico tempio 'pagano' sopravvissuto in Armenia. Tutto attorno ci sono i resti di palazzi e mosaici romani. In questo posto il Caucaso si concede un pò di ellenismo, un angolo che pare a metà fra Roma e la Persia.
A una trentina di chilometri da Erevan la strada corre nella pianura, tra villaggi e campi bruciati dal sole e porta a Etchmiadzin, la “cattedrale delle cattedrali”, il cuore spirituale del Paese. L'architettura è severa, fatta di mattoni rossi e scuri. È la memoria di un popolo che per primo abbracciò il cristianesimo. All'interno le decorazioni sembrano un giardino eterno con fiori e tralci, simboli che rimandano al paradiso. 

Poco distante ci sono le rovine di Zvartnots. Cerchi di colonne, archi crollati, pietre enormi adagiate al suolo come ossa di un gigante. Fu costruita quando Bisanzio e Armenia parlavano la stessa lingua. Oggi resta solo lo scheletro, ma basta a evocare la grandezza che fu un tempo.
Una giornata intera e sembra di aver attraversato secoli, dal 'paganesimo' ellenistico ai primi passi del cristianesimo, fino alle rovine che ricordano quanto fragile sia la vita delle pietre.

Le pietre parlano se sai ascoltarle. Alcune resistono, altre crollano. Le pietre portano i segni del tempo, dei terremoti, degli uomini; le guardo pensando a quanto poco dura ciò che noi crediamo eterno. Cammino tra cupole antiche, khachkar intricati e colonne cadute. 

In un disco che devo far uscire, Dust, tutto è partito dalla solidità che a un certo punto comincia a cedere. Ho cercato suoni che potessero dare la sensazione della bellezza che crolla, della materia che si trasforma. Le pietre sono l'elemento centrale di quel lavoro proprio per la loro apparente solidità, per la ruvidità, la bellezza, i colori, le forme che assumono. Ma come ogni cosa, anche loro sono destinate a disgregarsi, a svanire nel nulla. Come noi anche le pietre sembrano raccontare come tutto ciò che esiste sia destinato a finire, ma anche come, per un attimo, sembri eterno.

_________________

Camminando in questi paesaggi, osservando le persone e ascoltando i loro racconti, si percepisce un senso di precarietà. Un equilibrio fragile che sembra poter crollare da un momento all’altro, ma che allo stesso tempo resiste, giorno dopo giorno.
È difficile immaginare una pace stabile in un contesto dove la storia ha insegnato soprattutto a difendersi dal prossimo. Ma è proprio in questo particolare intrico di fragilità e tenacia che si misura la realtà di questa terra.

Dalle spiagge del Mar Nero o dalle dune del Caspio, l’Europa sembra lontanissima. Nel Caucaso la realtà è fatta di guerriglia, dispute secessionistiche, autoritarismo e democrazia traballante. Non sembrano esserci governi solidi. 
La recente storia dell’Europa insegna qualcosa; dalle macerie della guerra è nata un’Europa capace di reinventarsi, di tenere insieme popoli diversi, di costruire istituzioni che hanno protetto e migliorato la vita di milioni di cittadini. 

Anche in questi territori complicati si lotta contro gli stessi demoni che hanno tormentato l’Europa. Conflitti etnici, fragilità istituzionali. Tra le montagne e i fiumi di queste terre non sono solo i paesaggi a restare impressi, è il presente, che cerca di orientarsi tra passato e futuro.
Forse il futuro del nostro continente dipende anche da questa periferia che periferia non è, da questi confini che confini non vogliono essere.

 

5. TRIESTE. Pietra, mare, silenzio di casa

Alla fine torno sempre qui, a Trieste, nella casa sul Carso. Un altipiano meno remoto, ma non meno tormentato. Trieste non è solo la città della mia famiglia, è un pò un centro invisibile della mia vita. Camminando sul Carso vedo i passi di chi è venuto prima di me, mio padre, mia madre, i nonni, gli zii. 

Trieste è una città che conosce bene l’inquietudine dei confini. Ogni pietra del porto, ogni casa del centro porta ancora addosso il peso di guerre, esodi, cambi di bandiera. È una città che ha imparato a convivere con le lingue che si mescolano nei caffè e con il vento che spazza via ogni certezza.

Tornare qui dopo i villaggi del Caucaso (ma lo è sempre stato, anche dopo i ghiacciai della Groenlandia, le montagne del Pamir, il deserto del Gobi, per citarne alcuni) fa capire che le storie lontane non sono poi così diverse da quelle di casa. Anche qui ci sono state divisioni, ferite, comunità spezzate. Ma anche qui, come là, la vita ha trovato un modo per continuare, ostinata.

Forse il mio viaggio è sempre stato un modo per capire meglio queste terre di confine dalle quali provengo. E ogni volta che torno mi accorgo che i paesaggi lontani non fanno che rimandarmi all’immagine di questa città sospesa tra mare e pietra.

Trieste non è solo il punto d’arrivo, forse è la chiave che dà senso a tutto il cammino, che tiene insieme tutti i viaggi; forse è la lente attraverso la quale guardo il mondo.

Un giorno mi consegnarono un foglio. C’era scritto “esonerato dalla leva”. Motivo: profugo. Io, che non ho mai visto un campo profughi, che non ho mai attraversato con paura un confine. Quella parola mi era caduta addosso, un’eredità da capire, arrivata da un tempo che non era il mio.
Mio nonno abitava a Rovigno; mio padre nacque lì, ma non ebbe il tempo di ricordare molto, era troppo piccolo quando la famiglia fu spostata, prima a Grado, poi a Trieste. Ufficialmente erano profughi.
Così porto anch'io un’etichetta che per me era ed è un semplice timbro su un foglio di carta.
Queste frontiere, pur non vissute, mi abitano. Sono tra le pietre carsiche che tagliano il paesaggio. Sono negli sguardi di chi divide il mondo in “di qua” e “di là”. Forse sono anche nella mia ricerca del silenzio, che è anche ricerca di un confine interiore, di un modo per dare voce a un’eredità che non ho vissuto ma che mi scorre dentro.