domenica 24 febbraio 2013

Tibet, appunti di viaggio














Dedico questo viaggio a mia mamma, che ci ha lasciati pochi mesi fa;
dedico questo diario a mio papà, compagno di viaggio.




DISORIENTAMENTO
RONGBUK. Ghiaccio bianco, silenzio vellutato
TIBET, 2013


Per il contesto in cui si colloca, l’esperienza vissuta in Tibet occuperà uno spazio esclusivo nei miei ricordi.
Ciò che segue è una successione di fotografie di luoghi e del mio stato d’animo. Sono delle istantanee che rivelano esattamente ciò che sentivo nel momento stesso del viaggio. Forse ancora più spontanee rispetto alla sequenza di immagini raccolte in Groenlandia.
Desideravo un viaggio che riducesse la mia identità ai suoi elementi essenziali, per vedere quali sono, per trovarli.
In un’epoca in cui il turista è la norma e il mondo è un manifesto affisso al muro che si può consultare al prezzo di un biglietto, questo desiderio ha il sapore dell’utopia. Forse sono davvero un idealista, ma sognavo un viaggio di ritorno, un viaggio verso le origini, verso l’assenza di complessità e di finzioni che quotidianamente mi distraggono e mi snaturano.
In poche settimane è difficile raggiungere questo obiettivo. Ciò credo possa avvenire poco per volta, viaggio dopo viaggio, esperienza dopo esperienza. Perdere, lasciare, abbandonare, significa guadagnare semplicità, innocenza. Osservo in me questa metamorfosi, iniziata in Groenlandia, continuata nei tristi mesi invernali a cavallo tra 2012 e 2013, e proseguita in Tibet.
Tutto sta contribuendo a rendere di me un essere nuovo; è una continua evoluzione. Viaggi all’interno di un lungo viaggio alla ricerca di risposte e di me stesso.


Percorrendo la strada che conduce verso l’aeroporto di Milano, per un breve istante rivedo immagini del passato, ritorno all’infanzia, ai viaggi in Germania, a quelle autostrade che agli occhi di un bambino sembravano non finire mai, a quei paesaggi che osservavo dal finestrino; ricordo i campi coltivati, il sole, i boschi, il piacere di riempire lo sguardo di panorami mai visti, il desiderio di conoscere, di esplorare. Oggi in macchina siamo solo mio papà ed io; è un pensiero che emerge silenziosamente e che si fa spazio con prepotenza; e rimane a lungo.
Mi sento ancora distante dall’essere viaggiatore, resto in attesa di capire cosa emergerà, cosa sentirò quest’anno, cosa cercherò. Sarò viaggiatore? Viaggerò attraverso dei luoghi o dentro me stesso? La meta scelta mi aiuterà a trovare la strada per raggiungere una serenità e una pace interiore perse da mesi?
Lo scalo intermedio viene fatto nel mezzo del deserto, atterriamo nell’affollato aeroporto di Doha in Qatar. E’ quanto di più distante da ciò che ho cercato negli ultimi anni: caldo soffocante e infinite distese di sabbia. E’ una successione di burka, veli in testa, tessuti colorati e tuniche bianche; arabi e orientali. Osservando un’umanità che al primo momento mi disorienta, avverto che la mente si alleggerisce e che i pensieri cominciano a poco a poco a fluire verso l’idea del viaggio, emerge a rilento il desiderio di esplorare mondi che non conosco; e di leggerezza... Tuttavia questo aeroporto è un luogo neutro, è un contenitore impersonale, sterile, privo di una sua tipicità, di una nota distintiva; ma le persone che vi transitano o che vi lavorano destano la mia attenzione e la mia curiosità.
L’aeroporto di Kathmandu all'opposto, nella sua estrema semplicità e immediatezza, riempie gli occhi e incanta. Sono in Asia, ed è una assoluta novità per me (i ricordi del viaggio che feci in Siberia nel lontano 1988 si perdono ormai nella memoria). Immagini di libri, di film, di documentari, si sovrappongono a ciò che vedo e scompaiono, letteralmente spazzate vie da un mondo reale che mi scuote.
Nei miei ultimi viaggi ho cercato ciò che più mi rappresenta come individuo. Mi piace il freddo, la montagna, i ghiacciai, il Nord. Alla ricerca di suggestioni e di me stesso mi sono imbattuto in luoghi che anche se non fanno parte dell’Europa, ne mantengono comunque un legame, seppur sottile.

Il desiderio di poggiare lo sguardo sulla catena dell’Himalaya, sull’imponente Everest, mi ha condotto in terre davvero lontane, in un mondo per me completamente nuovo.
L’anno scorso ho vissuto un’esperienza importante e intensa, mi sono perso e ritrovato in un contesto fatto di Natura. Ho ritrovato il mio io primordiale, che chiedeva solo di essere, non più di avere.
Questa nuova esperienza sarà palesemente più varia, non ci sarò solo io e la Natura, ci sarà anche una cultura millenaria che si sta svelando ai miei occhi. Sono semplicemente incantato da ciò che ho intravisto oggi.
Il fascino del mondo Inuit, popolo che mi ha conquistato nel corso dei due viaggi precedenti, traspare dal rapporto istintivo e spontaneo tra uomo e Natura, nei confronti della quale non viene esercitata alcuna azione dominante e prevaricante. Gli Inuit professano un equilibrio con il mondo che ha il sapore dell’utopia, tanto ingenuo quanto lo sono loro stessi, che non hanno avuto la forza di contrastare il processo di colonizzazione imposto dagli europei e dal cristianesimo.
Nonostante la apparente ingenuità (agli occhi di un essere umano che vive nell’epoca della globalizzazione), il loro è un modello di vita ideale, basato esclusivamente sull’essere, in netto contrasto con il mondo che conosco e col quale convivo, incentrato prevalentemente sull’avere. E’ stato necessario andare di persona in quelle terre ghiacciate per coglierne l’essenza. Gli Inuit praticavano una forma di animismo che attribuiva uno spirito a ogni cosa o essere vivente. In questa ottica non è la terra ad appartenere all’uomo, ma è l’uomo che appartiene alla terra. In alternativa a templi, chiese, monasteri dove professare un credo, un luogo considerato sacro, più degli edifici costruiti dall’uomo, è la Natura stessa. E’ la massima espressione del divino.

E’ inevitabile, dopo un lutto importante, riflettere sulla propria natura finita, sul senso delle religioni, sulla fede verso...cosa?
Anche questo mi ha indotto a desiderare di vedere di persona un altro modello, questo è il mio primo contatto con il mondo induista e buddhista.
In questi luoghi, che per il momento ho avuto modo di osservare solo confusamente, la presenza dell’uomo è visibile ovunque. E’ questo semplice e banale pensiero che mi fa riflettere. Gli Inuit non hanno lasciato quasi alcun segno.

Non è una curiosità di natura teologica o antropologica quella che mi ha spinto a venire qui. E’ una riflessione che faccio in pullman mentre ci dirigiamo verso l’albergo. E’ il desiderio di vedere un luogo geograficamente maestoso caratterizzato da una dimensione spirituale indubbiamente affascinante.


Il caos di Kathmandu mi ha portato a fare un unico pensiero: siamo animali,
anche se spesso siamo portati a negarlo o a nasconderlo.
Gli esseri umani che ho visto oggi sono più consapevoli? La loro fede li aiuta?
Sono esseri che credono o che sperano?
Qual è il nostro destino?
Osserviamo le nostre differenze, il nostro appartenere a origini e culture che parlano lingue reciprocamente sconosciute. Quello che ho visto oggi sembra un mondo senza apparenze, senza finzioni, spoglio; più consapevole?
Il benessere del cosiddetto mondo occidentale porta all’apparenza e alla denaturalizzazione dell’essere umano che finisce col non riconoscersi più. Ho l’impressione che la mia esistenza sia stata un continuo togliere ‘illusioni’, certezze non tali, fantasie.
Scoprire l’essenza della vita in questo modo mi sembra doloroso. Bisognerebbe partire da altre basi per arrivare alla consapevolezza. Io sto cercando di raggiungerla sfrondando, abbandonando parte di ciò che mi ha portato fino a dove sono ora.
Questi esseri umani nascono e crescono con modelli più ‘corretti’, più vicini alla nostra natura?
Tutti quei cellulari che ho visto oggi, e le belle televisioni nei negozi della città, consegneranno anche a questo popolo le illusioni che sto cercando di eliminare? Saranno sufficientemente attrezzati per farne un uso consapevole?

Le piccole scimmie che ho visto oggi, peregrinano in cerca di cibo e vivono nei luoghi dove l’uomo ha eretto gli stupa.
In un lontano futuro cercheranno un significato nei loro stupa? La coscienza di sé le porterà a erigere monumenti e a teorizzare l’esistenza di divinità a loro immagine e somiglianza?
Tutto evolve, tutto cambia; dopo questa fase ce ne sono altre? Le religioni manterranno un ruolo di primo piano? Manterranno un ruolo?

Questi dubbi mi portano a vedere con un certo scetticismo questo abbandono in un credo così profondo e radicato. E’ invitante e allo stesso tempo mi sento distante, e forse nell'intimo desidero mantenere la distanza da ciò che vedo. Apprezzo la spontaneità, la genuinità, la purezza. Per come sono fatto io non so come si riesca ad affidarsi con così grande fiducia e trasporto ad un credo, qualunque esso sia. Riconosco che è un mio limite.
Non è mio interesse esprimere giudizi, semplicemente osservo e traggo spunti da ciò che vedo.
La forte compenetrazione tra Induismo e Buddhismo che ho visto oggi documenta una atipica e ammirabile forma di tolleranza, così come, nel contempo, una alterazione (termine al quale voglio attribuire un significato privo di connotazioni negative) del Buddhismo, convertito compiutamente in religione, da sistema di pensiero, filosofia di vita.
Cosa vedrò in Tibet? Vedrò una religione o una pratica per raggiungere la consapevolezza?

Questi pensieri, ingenui e raffazzonati, non vogliono esprimere giudizi o pretendere di essere spunti per un saggio sulla storia delle religioni, ma sono solo frutto di una ricerca personale volta ad accettare la nostra natura finita e la conseguente perdita di chi mi è (o mi è stato) vicino. Sono riflessioni che scrivo probabilmente per fare chiarezza a me stesso, per capire dove sono arrivato, quali sono i miei pensieri più intimi. Quest’anno sarà l’osservazione dei miei simili ad aiutarmi a comprendere? O torneranno ad essere gli spazi infiniti che per due anni ho visto in Groenlandia e che quest’anno presumo di vedere in Tibet? O semplicemente entrambe le cose?


Avevo un’idea di Lhasa che non corrisponde alla realtà. E’ un cucciolo di animale in gabbia. E’ una città assediata, un’intera cultura mortificata, un’identità smarrita. Vedo un mondo che forse aveva trovato una via per raggiungere la consapevolezza, un modello ideale. Ma è un mondo che si sta sgretolando, che stanno
riducendo in polvere. Non c’è neppure una compenetrazione tra culture diverse, una convivenza anche forzata. E’ semplicemente un’invasione. E’ davvero un genocidio.
Il Putala è un’idea appesa a un filo destinato a spezzarsi; l’ultima roccaforte di un mondo che sta per crollare.
E’ un ricordo che alberga nella modernità, un passato intriso di spiritualità annacquato in un presente/futuro asettico e insipido.
Sono rimaste una gestualità e una ritualità che in questo nuovo contesto sembrano spogliate del loro significato più profondo. E’ triste pensare che questa metamorfosi sia stata indotta con la forza.
L’essere umano era giunto anche a queste altezze, alle pendici delle catene montuose più alte del mondo. Era rispettoso di questi luoghi, consapevole dell’unicità del posto, al quale chiedeva ospitalità e risposte.
Chi vi è giunto in questi ultimi decenni è irrispettoso del luogo, del popolo che vi viveva e della sua cultura. Non c’è un accenno di armonia in quello che ho visto oggi, è una stonatura continua.
In nome della supremazia sui propri simili, l’uomo è capace di tutto. Distrugge, rovina, cancella pur di dimostrare la propria forza. E’ possibile che siamo esseri così arroganti?
Troverò comunque delle risposte? Qui o fuori da Lhasa?

La magnificenza del Putala e del Jokhang giustifica il grande afflusso di turisti che tuttavia rende impossibile una benché minima concentrazione.
I pellegrini tibetani si confondono in mezzo ai rumorosi turisti cinesi e ai pochissimi turisti occidentali. Loro trovano un senso confusi in questo assembramento, un senso che io fatico a trovare. Ma come tutte le grandi attrazioni turistiche vanno osservate e interpretate altrove, dopo averle viste. Lontano dal caos.
Dal Putala, posto in una posizione dominante sulla grande vallata, si vede una folle distesa di costruzioni nuove. Un tempo c’erano terreni e un piccolo villaggio; ora un’anonima e fredda città cinese, geometrica, funzionale, senza anima. Cardi e decumani sistemati sul territorio senza tenere conto del contesto; piuttosto, quasi a volerlo maltrattare e umiliare. Funzionalità replicabile. Città prefabbricata.
La breve
passeggiata tra le vie di Lhasa antica finalmente mi ha offerto la possibilità di poggiare lo sguardo sul popolo tibetano. Non è successo nulla di particolare, ma ho visto un briciolo di questo mondo che stavo cercando, e che non speravo più di trovare. Osservo questo popolo e penso che la sua salvezza stia proprio nei suoi monasteri, simbolo di un’identità molto forte che può quantomeno contrastare l’assedio.
Non sono un attivista, un sostenitore della causa del Tibet, sono solo un osservatore. Avrei potuto raccontare la sensazione di stupore nel vedere le famose bandiere colorate, gli effetti dell’altitudine, i colori e le forme delle case tibetane; i paesaggi nel tragitto dall’aeroporto a Lhasa. Avrei potuto descrivere le tipicità del luogo, gli interni dei monasteri, le alte statue che raffigurano i diversi Buddha, le tuniche rosse dei monaci; i monaci stessi.
Non l’ho fatto perché questo, purtroppo, è risultato solo contorno.
Ai miei occhi si è presentato un mondo calpestato, insultato. Un popolo esiliato entro i propri confini. Ciò è emerso in modo così violento che è l’unico vero ricordo di questi primi giorni in Tibet.
Riconosco che il dedalo di vicoli della città vecchia mi ha toccato in eguale misura, e intuisco che mi ha offerto una via per afferrare la vera identità di questo luogo. Nell’osc
urità scorgo una luce intensa che desidero raggiungere.


Il Monastero di Drepung e il Monastero di Sera offrono un’immagine più autentica dell’antico Tibet. Riesco a cogliere con migliori risultati, ma ancora non completamente, il senso di spiritualità che incanta i tanti pellegrini che dalle loro campagne giungono fin qui. Mi concentro sul loro lungo viaggio di preghiera e ignoro l’insolito contesto in cui vivono. Desidero comprendere la tradizione religiosa di questa terra, i valori di questo popolo. Questi monasteri sono un po’ più isolati dal contesto urbano e sono meno affollati; il significato che simboleggiano e che custodiscono è più accessibile, è più evidente, è manifestato in maniera più chiara e autentica. Mi lascio suggestionare dall’ambiente che evoca apertamente immagini di altre epoche e di altre culture e osservo i monaci e i tibetani stessi camminare lentamente tra le strette vie che costeggiano i muri bianchi delle residenze e dei templi di questi grandi monasteri.
All’interno le sale profumano di incenso e di burro di yak. E’ un odore forte, pungente, al quale ci si abitua e che lentamente acquista una sua identità. E’ il profumo di questi monasteri, che si sente anche all’esterno. Per la strada viene bruciato lo stesso tipo di incenso. Sono rami secchi di una pianta di rododendro che ha una curiosa somiglianza con il qajaasaq groenlandese. Lo stesso profumo di incenso si sente anche nelle strette vie di Lhasa vecchia.
I monasteri sono magnifici e meritano di essere visitati, ma anche oggi la passeggiata nella città vecchia mi ha comunicato spontaneamente una genuinità che mi ha subito e nuovamente conquistato. Sono due mondi diversi, ma queste vie piene di vita, di bambini che giocano all’aperto, di cibo, negozi, odori, rumori, riescono a distogliermi dall’idea dell’identità calpestata. I monasteri sono le roccaforti che contrastano l’assedio accettando compromessi inevitabili ma visibili. Sono destinati, in un futuro non così lontano, a diventare contenitori sbiaditi di una cultura spenta, annichilita.
Questo vecchio quartiere parla ancora, afferma con animo la sua identità. E’ destinato a diventare un ghetto, ma non ci penso e mi perdo nuovamente in questo dedalo come ho fatto ieri.
Qui ritrovo il mio io viaggiatore.

Anche questa mattina il tempo è bello. I rilievi che circondano Lhasa sono impreziositi dall’azzurro intenso del cielo e dalle luminose nuvole bianche. L’aria è tersa, pulita, il clima è secco. Sono i cieli che ho visto nei miei viaggi verso il nord del mondo, ma forse sono persino più cristallini, più puri, più nitidi, più puliti.
Prima di partire osservo ancora una volta la corona di montagne che incornicia la città, suo elemento distintivo che la contiene e la custodisce. Sono lì, alte, così ben visibili, nette, distinte, che sembra quasi che la loro presenza sia scontata. Ne riconosco pienamente il valore, la forza e lo splendore ora che dobbiamo partire.
Lasciamo le aree urbane e entriamo in un altro mondo.
E’ il Tibet che immaginavo, dove la Natura è padrona assoluta. E’ un paesaggio assolutamente inaspettato. La vallata dove scorre il fiume Bramaputra ha le sembianze di un deserto.
Dune di sabbia e rilievi alti oltre 4000 metri si combinano e offrono dimora al Tempio di Dorje Drak.
E’ piccolo e raccolto; in questo contesto, sprofondato nella natura, fa pensare al silenzio, all’intimità, al raccoglimento, all’ascetismo. E’ un luogo vivo, non è un oggetto solo da osservare, non è un museo. Qui colgo il senso di spiritualità che con grande fatica ho percepito a Lhasa.
Per essere un ‘viaggio della meditazione’ come quelli effettuati in Groenlandia, ora bisognerebbe abbandonare i mezzi che ci accompagnano, e vivere, sentire questa Natura immensa.
Lo sguardo si perde, gli spazi si fanno infiniti. Alle nostre spalle emergono in lontananza alte cime innevate.
E’ l’inizio di un viaggio itinerante, vedrò paesaggi e realtà lontane dalla modernità e dalla mia quotidianità.
Mi sento più leggero, indosso le vesti del viaggiatore, mi spingo verso l’ignoto.
Le tipiche case tibetane annunciano l’arrivo al centro monastico più antico del paese: il monastero di Samye. Il villaggio sorto vicino al monastero è piccolo ma vero, autentico.
La forma delle abitazioni è rettangolare e simmetrica, si accede da un cortile interno delimitato da una recinzione in pietra. La casa si sviluppa su due piani e il tetto è piano, viene sfruttato per essiccare le riserve invernali di cibo. Ai quattro lati del tetto sono posti i kenchira, rami che vibrano nella brezza diffondendo benefici e protezione sui campi circostanti. I dettagli ornamentali caratterizzano e impreziosiscono tutte le case, anche le più semplici e dimesse; sono colorati e tutti finemente rifiniti. Porte e portoni di questo villaggio sono gioielli preziosi. Osservo la genuinità dei suoi abitanti, gente povera che vive dei prodotti della terra.


Contemplo questo angolo di mondo dall’alto della collina di Hepo Ri. Il panorama s
i apre a 360 gradi e si perde a vista d’occhio. Oltre al villaggio e al monastero, solo Natura, senza confini.
Dopo cena la gente del posto si riunisce nel bar vicino all’albergo e si concede tè e anguria. Questo popolo sorridente mi conquista.
Nei corridoi dell’albergo mi accompagna il profumo di incenso, presente ovunque in questo paese.

Una ciotola di riso, due bastoncini, un thermos di tè appoggiati nell’incavo di una finestra di una residenza del tempio di Dorje Drak;
cavalli con selle colorate che sostano sotto gli alberi;
uno stambecco nel cortile del monastero di Samye;
stoppini che annegano nel burro di yak;
nuvole bianche come il latte;
i rettilinei di pietra e rami sulle dune di sabbia;
i fiori azzurri e le bandiere colorate che si agitano al vento;
le porte ornate delle case tibetane;
gli abitanti del villaggio di Samye.
Sono immagini che oggi sono rimaste fotografate nella mia mente e che regalo a mia mamma.




Penso spesso a mia mamma, questa notte l’ho vista in sogno. E penso a questo viaggio, al suo significato. E’ innegabilmente interessante vedere luoghi lontani e ricchi di fascino, ma quest’anno non è solo questo. Desidero allontanare i pensieri, ritrovare una serenità andata in pezzi, ritrovare il sorriso di mia mamma nei miei pensieri e nei miei sogni. Ritrovare me stesso.
Il monastero di Samye è un luogo di pace, è profumato di incenso, è isolato, è raccolto e genuino come il suo villaggio e i suoi abitanti. Non posso dire di avere ritrovato la serenità, ma questo angolo di mondo tranquillizza e quieta.


Samye è senza tempo, è il senso di spiritualità che si respira nel monastero, è la semplicità della vita di campagna, è il silenzio.

Lasciamo questa isola e ci immergiamo in un paesaggio fatto di verdi rilievi macchiati dal bianco delle pecore che pascolano e dal giallo della sabbia. Sono spazi senza confini e non urbanizzati. La strada è un lungo serpente che costeggia il fiume e che taglia la lunga vallata. L’acqua è torbida, la sabbia abbonda ed emerge ai lati e al centro del fiume. In lontananza, immancabili, le alte cime innevate. Il suono del tamburo, dei lunghi corni usati per le cerimonie religiose è in perfetta armonia con questi spazi che si dilatano e si perdono all’orizzonte. E’ un suono lungo, profondo, vivo, che pulsa. Sogno ad occhi aperti, cerco ospitalità in questa straordinaria immensità, tanta quiete induce al raccoglimento. Abbandonato felicemente sul sedile posteriore del fuoristrada osservo questo mondo dal finestrino e appunto nel mio quaderno impressioni, immagini, fantasie.
L’incanto si interrompe all’improvviso. Dal nulla, in questo meraviglioso paesaggio, compare la città di Tsetang. E’ un pugno nell’occhio, non tanto per il fatto di vedere spuntare una città in mezzo a una Natura di rara bellezza, quanto perché è un frammento di Cina, peraltro artefatto, inserito violentemente e in modo assolutamente disarmonico. E’ una visione sgradevole. Dove sono le piacevoli case tibetane? La coerenza, la proporzione, l’equilibrio? Stento a capire e persisto nel focalizzare l'interesse sulle bellezze di questa terra, senza prestare attenzione agli obbrobri introdotti volgarmente dalla Cina.


E’ un viaggio dello spirito, alla ricerca di un perché.
Dopo una prima fase in cui è prevalso lo stupore, il disorientamento, la sorpresa; in cui ero intento a capire dov’ero, confuso dai vari trasferimenti, prima Nepal e Kathmandu, poi Tibet e Lhasa; ora gli equilibri si sono aggiustati e il pensiero del decesso di mia mamma è tornato forte come prima. E’ un vuoto incolmabile.
Vedere questi monasteri, questi templi, i pellegrini, i monaci, dà un po’ di consolazione. E’ un’immersione in una dimensione fortemente spirituale. Ogni giorno, ogni visita a un monastero è l’occasione per leggere dentro me stesso e per cercare di trarre un po’ di serenità.
Sentivo la necessità di staccare. Un viaggio è un’ottima medicina, ma non volevo un’esperienza superficiale e priva di significato. Non sentivo neppure il richiamo verso suggestioni di natura religiosa o il bisogno di abbandonarmi a esperienze mistiche. Cercavo solo un modo per staccare riflettendo su ciò che è accaduto. Grandi paesaggi e antichi monasteri sono il connubio ideale.
Liberare la mente accogliendo impressioni cariche di significati da portare via e custodire con cura dentro se stessi: cercavo questo.
Viali di salici, sabbia che si arrampica sui rilievi, vallate verdi su cui scorre placidamente un fiume. La friendship highway inizia.
Occhi pieni di paesaggi e colori.
E’ il giorno della memoria, del rimpianto del passato, delle bandiere di preghiera, dei ‘cavalli del vento’ che portano le preghiere in alto nei cieli.
La strada sale rapidamente e giunge al passo Kampa La (4870 metri) dove mio papà ed io disponiamo con cura la prima serie di bandiere colorate in ricordo di Lucia.
Al di sotto si apre una splendida vista del lago Yamdrok, e in lontananza si vedono cime innevate dominate dalla vetta del Nojyn Kang Sa (7200 metri). Sulle sponde del lago mio papà sistema la seconda serie di bandiere. La terza la ancoriamo tra le rocce del passo Karo La (5010 metri).

E’ una successione mai vista di paesaggi meravigliosi: dune di sabbia in prossimità di Tsetang, verdi terrazzamenti e isolate case tibetane, acque color turchese del lago, una estesa vallata con vegetazione spoglia simile alla tundra, e maestosi e imponenti rilievi coperti di neve e ghiacciai. Il paesaggio si fa poi più dolce e verde, tagliato da un fiume color cobalto, prima di arrivare nella città di Gyantse. Lungo il percorso solitari villaggi del colore della terra, tende nere, pastori di pecore e di yak.
Trovo due carte da gioco abbandonate per strada, un re di cuori nel villaggio di Danang, all’inizio del percorso, e un jack di cuori nell’ultimo passo prima di arrivare a Gyantse. M

i piace ingenuamente pensare che rappresentino mio papà e me stesso in questa giornata tacitamente dedicata a mia mamma. E mi piace pensare che Lucia ci stia seguendo, che sia in qualche modo qui con noi, in mezzo a questa natura imponente. Che sia il senso di meraviglia che suscita questa Natura straripante.
E’ un altalena, l’umore sale quando mi concentro sul viaggio e quando la mente si libera. E’ un tuffo al cuore quando richiamo alla mente il suo decesso. Accetto, cos’altro fare.
In camera, prima di andare a dormire, scrivo un po’ e mio papà legge. Metto una luce bassa, soffusa; oggi è un giorno in cui i ricordi emergono spontaneamente, non mi oppongo. Questo semplice gesto mi richiama alla memoria un dettaglio che in apparenza pare irrilevante, ma che per me ha la stessa capacità evocativa di un profumo dimenticato, di un odore che quando ritorna porta con se un mondo di ricordi: rivedo le poche luci, morbide e calde, che mia mamma accendeva quando arrivava sera. Anche in ospedale, in quei tristi mesi autunnali e invernali, prima di salutarla e di lasciare la sua stanza, alcune volte mi era capitato di tirare le tende e di lasciarle accesa solo la lampada sul comodino. Le fievoli luci che anticipavano e conducevano delicatamente verso il momento del riposo.
Presente e passato si confondono e continueranno a farlo. Non è il mio io viaggiatore che scrive ora, sono momentaneamente scivolato nel mio vicino passato; non oppongo resistenza, forse sono un po’ più debole, mi lascio sopraffare dai ricordi.

Riemergo dall’oscurità e mi abbandono al fascino del piccolo nucleo tibetano di Gyantse. Sullo sfondo l’insieme sacro composto dal Palkhor Chode e dal Kumbum raccolti entro mura bianche. Profumo di incenso e moltitudini di pellegrini ne impreziosiscono la visita. Osservo la ritualità dei gesti, un avvicendarsi di lunghe trecce ornate e colorate, di sguardi incuriositi di bambini, di anziani ingobbiti che versano burro di yak nei lumini chiamati chöma

y, di mani che offrono denaro alle statue. Riempio gli occhi dall’alto del castello, il paesaggio si apre a 360 gradi, la vallata è incorniciata da rilievi di un colore che sfuma dal marrone al verde scuro. La vastità disorienta, si vorrebbe cogliere l’insieme ma è troppo. Dall’alto si vede il piccolo villaggio tibetano, un gioiello in miniatura. Nella sua semplicità è quasi più evocativo del complesso sacro. Animali da pascolo legati ai portoni d’ingresso come fossero guardiani, sculture sacre poste all’entrata a tutela del modesto rifugio; strade sterrate dello stesso colore delle case, essenziali ma sempre riccamente decorate. Osservo in silenzio, con lo stesso riguardo e discrezione con cui mi addentro e mi muovo nei monasteri, assaporo il fascino di un ambiente arcaico che evoca una molteplicità di immagini e sensazioni, che incanto!
Uno spaccato di vita contadina è ciò che mi viene offerto oggi. Poco fuori da Gyantse inizia una rassegna di case costruite nel rispetto della tradizione, si attengono tutte al caratteristico stile tibetano. Molte delle recinzioni che danno forma al cortile interno sono realizzate con mattonelle di sterco essiccato di yak. Altre assomigliano a recinti ma sembrano piuttosto architetture di sterco predisposte esclusivamente per il suo essiccamento. Lo sterco

viene utilizzato anche come combustibile per riscaldare le case nei lunghi e freddi inverni. E’ un elemento prezioso e letteralmente senza prezzo, impagabile.
Estesi e vasti campi di orzo fanno da barriera tra una casa e l’altra. Serre disseminate nei terreni forniscono considerevoli quantità di cocomeri; considerata l’altitudine è quanto mai insolito scoprire che il cocomero è un frutto molto apprezzato in Tibet.
Il paesaggio che osservo dal finestrino è come un enorme quadro in movimento, riccamente ornato da cieli incredibilmente azzurri, macchiati dal bianco candido delle nuvole, gonfie e voluminose. L’aria è tersa e pulita.
Le città e i villaggi sembrano proprio sorgere dal nulla, da distese senza confini che permettono di sognare a occhi aperti. Immagino i nomadi che corrono a briglia sciolta con i loro cavalli, per lunghi giorni, senza mai fermarsi. Sento il rumore ripetuto e cadenzato degli zoccoli che battono il terreno; in lontananza odo il canto dei monaci provenire da un remoto e lontano monastero.
Parte di queste immagini si traducono in realtà, o è la realtà che muta in sogno. Il piccolo monastero di Shalu e il suo villaggio appartengono a un’altra epoca, sono uno spaccato di un mondo ancestrale. La suggestione cresce all’interno del monastero, non c’è luce e le statue dei Buddha affiorano dal buio, esseri impenetrabili, celati nell’ombra.
Pitture risalenti all’XI secolo rivestono le pareti delle sale interne, conferendo ulteriore valore al luogo e alimentandone il fascino. I grandi portacandele colmi di burro di yak, posti di fronte alle statue, sembrano rappresentare il mondo terreno, con quell’odore pungente che arriva dalla terra circostante.
Lungo la strada uomini e donne con le pale in spalla, gerle, attrezzi da lavoro e il rosario al collo.
E’ un mondo in movimento, l’ambiente contadino si confonde e si amalgama in un paesaggio che, inizialmente appena accennato, diventa presto urbano. Shigatse, quel mondo contadino tipicamente tibetano sembra essere stato risucchiato, polverizzato e rigettato fuori sotto forma di un’anonima parata di edifici squadrati e pedantemente geometrici.
L’arrivo di una città viene annunciato da incessanti lavori diss
eminati lungo la strada. Superato il viale di salici posto all’ingresso di
Il Tibet e la Groenlandia sono due luoghi paesaggisticamente meravigliosi. Sono luoghi fragili che soccomberanno sotto l’effetto della globalizzazione. Guardare coi propri occhi queste mutazioni, ancora in potenza o già avviate, comporta l’elaborazione di una forma di rassegnazione e di accettazione verso ciò che genericamente definirei cambiamento, evoluzione. Il termine ‘impermanenza’ è l’essenza di questo viaggio, nulla resta per sempre, prima di tutto noi stessi e chi ci sta vicino, chi amiamo.
Forse ciò che bisogna imparare a fare è saper apprezzare; e saper dire
‹‹ho avuto la fortuna di vedere quel luogo con i miei occhi››,
‹‹ho avuto l’onore di vivere a fianco di quella persona››.
E’ mio compito non sprecare mai niente, devo far crescere dentro di me ciò che vivo, che sento, che vedo. E trasmetterlo, comunicarlo.
Se due occhi e un cuore si spengono, devono continuare a parlare attraverso gli occhi e il cuore da essi generati.
E questi luoghi devono essere raccontati da chi ha avuto la possibilità di visitarli e di apprezzarne la bellezza.

Il complesso monastico del Tashilumpo, residenza del Panchen Lama, è maestoso, è un piccolo villaggio che oggi ospita un migliaio di monaci.
Mi catturano i volti dei pellegrini, cerco di imprimerli nella memoria, ma sono così tanti. Volti scuri, grinzosi, bruciati dal sole; in mano portano il sacchetto giallo con il surrogato del burro di yak e banconote per le offerte.
I lo
ro sono gesti meccanici, indotti, o sono frutto di trasporto sincero e di una illuminazione raggiunta? Mi limito a osservare affascinato i loro rituali che infondono serenità. I volti stessi di queste persone sono sereni e senza esitare in prolungate e inconcludenti riflessioni, questo è l’insegnamento che ricevo.
Limpidi, aperti ed estremamente comunicativi sono i sorrisi dei tre bambini che incontriamo lungo la strada per Sakya; esprimono il senso di pace e di leggerezza che infonde questa terra.
Il paesaggio scorre davanti ai miei occhi, mi sistemo comodo sul sedile del fuoristrada e contemplo. Un’ampia vallata pianeggiante circondata da rilievi aridi e brulli; macchie di giallo intenso delle piante di colza e di soia; piccoli villaggi del colore della terra e infinite coltivazioni di orzo. Mucche e yak pascolano in questo scenario impreziosito dai magnifici cieli azzurri. E’ incredibile sapere che tutto ciò che vedo si trova oltre 4000 metri di altitudine. Prendo il mio quaderno e registro le sfumature e le variazioni di paesaggio che si succedono senza interruzione:
un carro trainato da un asino; sullo sfondo case tibetane;
un campo di orzo, una contadina china sulla terra coltivata;
famiglie sedute sotto un ombrellone azzurro, una pausa dal faticoso lavoro nei campi;
donne con cappelli colorati in testa;
un mulinello di vento alza la terra sfumandola nel cielo;
un piccolo agglomerato di case, persone sedute all’ombra e un cortile impreziosito da alte campanule dai colori vivaci;
paesaggio brullo e verdi terrazzamenti coltivati che convivono in armonia;
profondità e serietà negli sguardi dei bambini.
Non sazierei mai la vista in questi luoghi. La catena himalayana dal passo Tsuo Là (4700 metri) è una sequenza di sfumature di marrone, verde scuro, terra di Siena, ocra. Più si sale e più i colori si fanno severi, e la vita si contiene. E’ come quando si trattiene il fiato, i polmoni si gonfiano, si gonfiano, e per un attimo tutto si ferma. Scendendo dal passo il paesaggio si addolcisce, torna un verde più intenso, più vivace. E riprende l’attività fisica, il movimento incessante di uomini e di animali. Osservo un piccolo assembramento di persone nel cortile di una casa, sono impegnati a sistemare i mattoni in terra cruda seccata al sole. Più in là un grande gregge di capre nane tibetane al pascolo.
Affogata nelle montagne, in lontananza si vede Sakya, che si rivela un vero gioiello. Al nostro arrivo alcuni rilievi vengono spruzzati di neve. Le mucche, accompagnate dai loro pastori, tornano dal pascolo e transitano davanti al grande monastero che ha le sembianze di un castello medievale. E’ un angolo di mondo isolato, lontano, perso nel nulla; evoca immagini di epoche antiche ormai perdute. E la mia mente si perde in un gioco di immagini che vengono sia dalla realtà che dalla finzione, dalla storia e dalle favole. Di notte si sente il suono profondo dei corni provenire dall’interno del complesso sacro



Sei mesi oggi.
Desidero ricordare mia mamma in questo luogo speciale, in questo suggestivo monastero. Lascio un’offerta, un dollaro, e penso a Lucia sotto lo sguardo indulgente di Sakyamuni, il Buddha del presente, il Buddha storico, seduto a gambe incrociate sul suo trono di fiori di loto.



Assisto alla cerimonia dei monaci. Il loro canto viene saltuariamente appoggiato sul suono dei lunghi corni, del tamburo e dei piatti. Assisto al rito alla luce delle candele. I pensieri fluiscono, scorrono via, il cantilenare ripetitivo è ipnotico, il tempo si ferma, si interrompe. Sospensione.
Questo luogo, come gli altri monasteri, induce a riflettere sul senso della vita, sulla transitorietà.
Nonostante il pensiero ricorrente, questo viaggio mi sta regalando un po’ di quiete e un po’ di serenità che non provavo più da lungo tempo e che stavo cercando. Lucia mi manca immensamente, ma assorbire quotidianamente in questi monasteri parole e concetti della filosofia buddhista è consolante, anche se non risolutivo.

Attaccamento e avversione sono funi che legano allo stesso modo. Il liberato li trascende entrambi, stabilendosi nella pace e nella felicità. Tale felicità è incommensurabile. Il liberato non si attacca alle visioni errate della permanenza e del sé; ma neppure si attacca a visioni ristrette riguardo all’impermanenza e al non sé  (1).

Respiro il senso di libertà che mi suggeriscono gli spazi ampi e vasti che osservo dal finestrino. Vorrei correre e perdermi in questa immensità e non pensare a nulla.
Attraversare prati e campi a piedi nudi; correre, correre, correre, fino a perdere il fiato.
Saltare da un picco all’altro di questi alti rilievi e spiccare il volo come fanno le aquile.

Raggiungiamo il passo Gya Tsu Là (5283 metri). Siamo nel mezzo della catena himalayana, non dovrei stupirmi, ma è inevitabile: si apre una vista miracolosa, una corona di montagne innevate alte sei, sette, otto mila metri. Lo sguardo si perde, è impossibile raccogliere questa immensità. In fondo, sotto coltri di nuvole, si intravede l’Everest o Chomolangma, in tibetano; in italiano Dea Madre dell’Universo.
Il Tibet, il tetto del mondo; osservare da queste altitudini questo panorama fa sentire vivi. E infonde un’energia e una carica che desidero accumulare e usare quanto più a lungo possibile.
Anche se ormai muniti di moto, immagino nuovamente i nomadi di questi luoghi, la cui fisionomia mi ricorda quella degli indiani d’America, con le loro trecce ornate di rosso e avvolte sul capo, cavalcare lungo queste ampie vallate che salgono e scendono, che si rincorrono, e dalle quali si innalzano queste maestose montagne che toccano il cielo.
Ammirare queste bellezze naturali, vivere in stretto contatto con esse, inevitabilmente porta a interpretare in modo più vero il proprio essere, la propria condizione. Mi sento meno essere umano e più animale, meno cittadino e più semplicemente creatura. Ci stiamo scordando che in fondo siamo organismi naturali e che abbiamo un profondissimo legame con la natura. Non si può separare la civiltà dalla natura, dipendiamo totalmente da essa.

Gli imponenti paesaggi che vedo ora hanno la stessa forza degli ambienti immacolati della Groenlandia.
Rifletto sul grande fronte glaciale che ho visto per due anni consecutivi; rifletto sul suo rapido arretrare.
Nel nostro inconscio siamo tutti immortali, è inconcepibile riconoscere di dover affrontare la morte. Allo stesso modo riteniamo che i mutamenti del nostro pianeta non ci riguardino, li reputiamo talmente dilatati nel tempo che siamo portati a pensare che se accadranno, ciò avverrà in un lontano futuro.
Non pensiamo mai che possano avvenire nei pochi anni in cui noi stessi viviamo su questo pianeta.
In realtà proprio ora è in corso un mutamento epocale, provocato dagli stessi esseri umani. Lo scollamento tra civiltà e natura è cresciuto a tal punto da farci dimenticare chi siamo, da portarci a ferire e offendere la nostra terra e alla fine noi stessi.

I nostri avi coniavano nomi impegnativi e carichi di significati per identificare le meraviglie che vedo in questi giorni; la grande Dea Madre dell’Universo. Che senso di rispetto e di riguardo che evoca questo nome; e noi? Abbiamo ereditato tutto ciò, e cosa facciamo? Il riscaldamento globale è una realtà, è il risultato della nostra ottusità.

Prima di cena rimango a osservare il paesaggio, la pianura sconfinata che cerco di abbracciare con lo sguardo, gli imponenti picchi himalayani.

Tutto quello che ho visto oggi lo dedico a mia mamma.

Il termine Ama in lingua tibetana significa Madre.

Giochi di luce e di ombre sui rilievi. Nuvole oscurano il paesaggio.
E’ un momento del viaggio particolarmente significativo, ci avviamo verso il campo base dell’Everest, o Dea Madre dell’Universo. Superiamo l’ennesimo posto di blocco cinese, attraversiamo un piccolo villaggio, e iniziamo la salita.
La meta che stiamo per raggiungere richiama alla mente le innumerevoli spedizioni nate con l’intento di sfidare altezze impossibili, limiti quasi invalicabili. Solo l’idea di pronunciare le parole ‘ottomila ottocento metri’ fa tremare le gambe, fa mancare il fiato. Eppure queste spedizioni sono partite esattamente da dove mi trovo ora.
A bordo di un fuoristrada il tragitto è fin troppo agevole, la strada si inerpica sulla montagna, raggiunge un passo, scende, percorre una vallata e risale fino al campo base. Arrivarci a piedi, come accadeva in un passato non troppo lontano, era un’avventura che richiedeva un paio di giorni; poi iniziava la vera sfida, da affrontare con un equipaggiamento che oggi risulterebbe del tutto inadeguato. Quanto coraggio ci voleva, quanta risolutezza e audacia.
Mentre seguitiamo a salire rifletto sulle sensazioni che tale grandiosità poteva suscitare nei popoli che vi vivevano in prossimità, in epoche più remote. La soggezione, la venerazione; la devozione e il rispetto che hanno indotto queste genti a coniare un nome così importante.
Il turbinio di pensieri si interrompere all'improvviso, la vista della Dea Madre dell’Universo e delle altre cime dal passo Pang La è mozzafiato. I piani collinari bruni si elevano e svetta maestoso uno schieramento di cime innevate. Che imponenza, che enormità!
Osservarle da qui, che siamo ancora distanti, incutono timore, mettono soggezione; osservarle da vicino, dal basso verso l’alto, deve essere inesprimibile, una visione gigantesca, colossale.
Scendendo da ques
to primo passo incrociamo alcuni ‘indiani’ a cavallo delle loro moto. La discesa procede e la strada attraversa un piccolo nucleo di case, un villaggio dimenticato, sperduto. Dei bambini ci salutano, donne, animali da pascolo e qualche cane fiancheggiano la strada. E’ un’isola in mezzo a questo mondo solitario e sconfinato del colore della terra; mille sfumature di marrone, mille alture, colline, montagne che si inseguono e sovrappongono.
Passiamo un’altra serie di villaggi, campi coltivati e costeggiamo un fiume. Gli abitanti di questi villaggi non possono che vivere di autosussistenza, persi come sono in mezzo al nulla. Gli ovili dove gli animali da pascolo dimorano la notte sono recinti alti meno di un metro realizzati con piccole pietre accatastate una sull’altra. Sono disseminati lungo il percorso, in mezzo alle lande infinite e vicino alle abitazioni.
Uno yak solitario e sparsi fiori viola annunciano il ritorno delle cime innevate. La strada riprende a salire e costeggia un torrente dalle acque grigie. Avvolto da nuvole che di volta in volta ne celano e ne scoprono diverse poDea Madre dell’Universo si mostra di fronte a noi. Facciamo una breve sosta all’interno di una tenda di nomadi adibita a rifugio e cucina, prima di raggiungere il campo base, situato a 5200 metri di altitudine.
rzioni, la
La Dea Madre dell’Universo è come un oracolo. Si fa osservare con riverenza. Ne vediamo una parte dietro la quale si erge maestosa la parete più alta, appena accennata dietro alle nuvole. Che imponenza, che grandiosità..
Mio papà ed io sistemiamo in questo luogo incantato l’ultima serie di bandiere in ricordo di Lucia. I cavalieri del vento si agiteranno e oscilleranno a lungo davanti a questa grande montagna.
Scendiamo al monastero di Rongbuk, il più alto al mondo; da qui il panorama è incomparabile, l’accostamento dei due ambienti,

sacro e naturale, accentua le specificità di entrambi e le combina in un insieme armonico e altamente evocativo. E’ abitato da diciassette monaci e da quindici monache. E’ il monastero più raccolto, caldo e ospitale tra quelli visitati. E’ piccolo, si snoda in poche stanze semplici e sobrie. La cucina è un ambiente accogliente anche se quasi appena abbozzato. Non vi è pavimento, si cammina sul terreno, ben spianato e liscio. Al centro c’è la stufa, alimentata con lo sterco essiccato di yak. Tutto attorno ai lati, giacigli su cui sdraiarsi. Il monastero, è l’unica struttura, oltre alle tende dove abbiamo mangiato, che offre riparo in prossimità del campo base. Verrebbe voglia di restare qui per un po’ di giorni, ad ammirare il paesaggio e a osservare da vicino la vita di questo monastero.
E’ l’ora del pranzo e nella cappella principale i monaci e le monache mangiano dalle loro ciotole lo tsampa, alimento base dei tibetani, preparato con farina di orzo mescolata con tè al burro di yak.

Raggiungiamo i fuoristrada e cominciamo la discesa verso Ting Ri; il tragitto che percorreremo si rivelerà il più bello dell’intero viaggio. Fotografo mentalmente alcune immagini:
yak al pascolo in ampie vallate verdi e collinari;
una famiglia che mangia sul prato;
l’”halo” quasi urlato dei bambini di un isolato villaggio;
stambecchi che si inerpicano sulle rocce;
alture tondeggianti che sembrano dipinte con colori ad acquerello, mille sfumature di marrone, verde, viola, ocra.
Sprofondo in questo scenario sterminato, la valle si apre ulteriormente e lo sguardo si perde nell’infinito. E‘ una somma di paesaggi che si alternano e si susseguono. E’ troppo per l’occhio umano. All’improvviso compare un piccolo canyon, terra rossa, e le immancabili cime innevate. Poi nuovamente l’immensità.
Vivo il presente, portare dietro tutto questo è impossibile. Questa vastità ti rammenta quanto siamo piccoli, deboli. Ed allo stesso tempo è la porta per accedere al sacro Tibet, al Tibet dei lumini tremolanti delle lampade a burro.
Osservo incantato.
Greggi di pecore lungo il percorso e un villaggio in lontananza. Una pausa, scendiamo dalla macchina e…il silenzio.
Due ‘indiani’ a cavallo di una moto e le prime luci del tramonto.
E’ una giornata leggera, nessun pensiero, nessuna riflessione, provo un forte senso di tranquillità. Mi sento a casa in questi luoghi.
Dal cortile dell’albergo osservo la maestosa Dea Madre dell’Universo in tutta la sua bellezza, chiara, ben visibile, senza più nuvole. Le bandiere staranno sventolando laggiù, in quella vallata silenziosa e solenne.


Parto all’alba. Un branco di cani si lancia di corsa tra i prati dell’ampio pianoro in fondo al quale svetta la Dea Madre dell’Universo. Che senso di libertà..
I colori dell’alba ammorbidiscono forme e colori del paesaggio di ieri.
Tende sparse sui prati; del fumo suggerisce l’idea di una tenda adibita a cucina.
Rovine del colore della terra lungo la strada a ricordare l’occupazione nepalese.
Le prime luci del sole e le ombre che si allungano sui prati.
Grappoli di case tibetane sparsi lungo il fiume, ognuna immancabilmente con la sua bandiera rossa, tacito segno di accettazione dell’invasione in corso. Un assedio molto più subdolo rispetto agli antichi fortini nepalesi.
Sullo sfondo svetta la maestosa cima del Shisha Pangma (8013 metri) al confine con il Nepal, talmente bianca da confondersi con una nuvola. Ma è solo un’anticipazione. La strada si alza di quota e si intravede la catena himalayana. Non ci si può abituare a questo spettacolo, lo stupore è vivo c
ome sempre. Lo sguardo si fa vigile e si imbeve di questo miracolo. Vedere svettare mastodonti alti 8000 metri, da un’altezza di 5000 metri, è un’immagine incredibilmente potente.
E’ la potenza della Natura.


Come può tanta bellezza non avere alcun significato? Essere fine a sé stessa? Perché chiede di farsi osservare/osservarsi?


Scendo di quota e si cominciano a vedere i primi campi coltivati. Una strada militare si inerpica su una montagna per sconfinare nell’ormai vicino Nepal. Più si scende e più si intensifica la presenza di villaggi e di esseri umani. Il paesaggio, pur sempre pietroso, comincia a farsi meno aspro. Macchie di vegetazione tra le rocce.
Un centro abitato con edifici alti e moderni simboleggia, in un contesto simile, l’arroganza dell’uomo. La stonatura è giustificata dalla vicina presenza del confine con il Nepal.
Ricompaiono gradualmente prima gli arbusti e poi gli alberi che, tornante dopo tornante, cominciano a ricoprire i rilievi e a modificare l’aspetto del luogo. I panettoni di pietra dalle mille sfumature di marrone sono ormai lontani, così come le sterminate e infinite valli dell’altopiano tibetano.

Lo sguardo è compresso e ridotto, inizia una stretta insenatura e la strada improvvisamente si tuffa in una profonda gola ricoperta da foreste di sempreverdi, solcate da cascate e fiumi impetuosi. Spegn
iamo i motori e sentiamo solo il rumore dell’acqua. Che pace, che colori! Sarà per la discesa improvvisa, per l’idea di uscire dal Tibet e di arrivare alla conclusione del viaggio, ma sento che il mio sguardo chiede ancora un po’ di quella quiete e vastità dell’altopiano, ormai lontano, là in cima.
L’ultimo centro abitato prima del confine, Dram, è abbarbicato sulla montagna. Si sviluppa lungo una serie di tornanti. E’ una città-dogana, grande e piena di vita, di negozi, di merci; quanta confusione…dove sono finiti gli ampi spazi abitati solo dai nomadi? Al loro posto grandi camion Tata parcheggiati ai lati della strada (peraltro stretta) in attesa di passare il confine. C’è un’atmosfera animata e frenetica, e considerato il brulichio di Kathmandu, suppongo che da qui fino alla fine del viaggio la quiete e il silenzio verranno sostituiti dal trambusto e dalla confusione.
Entriamo in Nepal, nel versante opposto della stretta vallata. La città alla frontiera, Kodari, è il disordine; case evanescenti a più piani, baracche, gente per la strada; galline, animali, colori, odori. Si è aperta una porta verso un altro mondo. Scendo affiancando il fiume, un serpente bianco come il latte che scorre in una vallata sempre più lussureggiante e verde. Il panorama montano del Nepal è caratterizzato da isolate abitazioni arroccate sulle montagne con un po’ di coltivazioni in prossimità dell’abitazione e qualche animale da pascolo.
Più scendo e più il paesaggio seguita a cambiare, le coltivazioni aumentano, si vedono terrazzamenti in ogni dove. Riso da qualsiasi parte si volti lo sguardo.
E quante fontane. Ogni piccolo agglomerato di case ha la sua fontana posta lungo la strada. Vengono lavate le stoviglie e i vestiti; l’acqua fresca che scende dalla montagna è anche un toccasana per rinfrescarsi; il clima ora è caldo umido. L’aria tersa e frizzante del Tibet è ormai un ricordo.
Dell’ultimo tratto di strada, prima di arrivare a Dulikhel, mi rimangono impressi due colori: il verde intenso della vegetazione e il rosso deciso della terra.

Il Nepal è un mondo completamente diverso dal Tibet, lo stacco è netto. Qui tutto è così, mi si passi il termine, sfacciatamente vero, immediato, schietto, da lasciare storditi. C’è un continuo movimento, c’è affollamento in ogni angolo, lo sguardo è attirato dalle tante abitazioni disseminate lungo la strada, dai suoi numerosi abitanti, dagli animali; dinamismo e vivacità. Indigenza e miseria.
I maestosi paesaggi del Tibet, quasi disabitati, infondevano un senso di intimità, di riservatezza. Qui, al contrario, ciò che vedo mi induce a pensare a due termini che esprimono altre sensazioni: apertura e disinvoltura. E mi accorgo che le mie riflessioni si fanno più pungenti, più severe.
La morbida carezza del Tibet, che mi ha guidato nei miei momenti di raccoglimento, offrendomi conforto e  consolazione, cede spazio a un gesto ruvido e spigoloso, che mi mostra con estrema spontaneità e immediatezza la vita nella sua più cruda realtà. Questo luogo mi affascina e allo stesso tempo mi disorienta. La povertà costringe a sottrarre, a vivere con poco o anche con niente. Tutto è esposto, è pubblico. Non sembra esserci riservatezza. La vita si svolge all’esterno, non ci sono mura domestiche a proteggere la sfera privata. E i pensieri arrivano diretti, subito a fuoco, non c’è bisogno di elaborazioni e di interpretazioni. Osservo la vita nella sua essenza, semplice e spontanea.


Baktapur è un bellissimo centro riconosciuto dall’Unesco come uno dei luoghi facenti parte del Patrimonio dell’Umanità. Osservo affascinato, è impossibile non rimanere colpiti dalla raffinatezza artistica degli edifici, dalla vita che si muove in ogni direzione nelle strette vie.
Ma è il centro sacro delle cremazioni, Pashupatinath, che arriva dritto al cuore, e che rianima le mie sofferenze.
Il rituale legato alla morte da noi è vissuto con intimità, in silenzio, quasi di nascosto. La morte da noi non si vede, non si
vuole esporre, non fa parte della quotidianità.
Qui al contrario è mostrata, esposta, condivisa, resa pubblica, è tangibile. E forse è giusto così. Il rito funebre è brutale nella sua naturalezza. Non riesco a guardare, sono immagini che mi procurano dolore, il ricordo della morte di mia mamma è ancora fresco.
Affollamento, animali, corpi cremati; gente accalcata in ogni dove che osserva. E’ come se rivivessi quel triste momento con gli occhi di mille persone.
In un altro periodo della mia vita avrei guardato pure io; e in futuro guarderò. Voglio prendere le distanze dal nostro modo di allontanare la morte.
Anche i tibetani sono incoraggiati ad assistere alle loro cerimonie funebri e a confrontarsi apertamente e senza timore con la morte, ritenuta un potente mezzo di trasformazione e di progresso spirituale.
Siamo noi che neghiamo la morte e la malattia. La teniamo separata da noi e dalla nostra quotidianità.

Ritrovo un po’ di quiete nel pomeriggio. Con mio papà torno a vedere il grande stupa di Boudanath, l’antico monumento buddhista di Kathmandu che vedemmo il primo giorno e attorno al quale ruota la vita della comunità tibetana in esilio. Risento i profumi dell’incenso e il salmodiare dei pellegrini. Compiamo una serie di kora, ossia giriamo in senso orario attorno all’imponente chörten. Poi saliamo sul monastero dove i pellegrini si siedono a gambe incrociate e pregano rivolgendosi a Buddha. Li osservo e li ascolto, e mi abbandono al cantilenare dolce e monotono che si leva in alto sotto i grandi occhi assorti dello stupa di Boudanath.
Sono gli spazi senza confini e una cultura profondamente pervasa dal senso religioso gli elementi fondamentali di questo viaggio. Inscindibili e complementari.
Osservare questi pellegrini mi precisa il significato e il valore di questo viaggio.
I monasteri e lo stesso altopiano, illimitato, vasto, dominato da vette che sfiorano il cielo, si equivalgono; sono luoghi fortemente permeati di sacralità, meta di un personale pellegrinaggio inconsapevole e allo stesso tempo desiderato.
La religione popolare del Tibet abbraccia sia la dottrina buddhista che la religione locale bön, fede animista, sciamanica. Si basa sul culto e la pacificazione degli spiriti, che risiedono nelle rocce e negli alberi, in fondo a laghi, fiumi, pozzi; nelle montagne, nell’aria. Questo ha portato i nomadi tibetani a vivere in equilibrio perfetto con il loro aspro territorio, ne hanno riguardo.
E’ la stessa forma di rispetto verso la Natura che ho osservato in Groenlandia.
Ciò che ne consegue è un rapporto diretto e vero anche verso se stessi, verso ciò che realmente siamo, fragili ospiti di questa terra.
Perché devo percorrere migliaia di chilometri per rintracciare la semplicità, l’essenza delle cose, la mia natura, il mio essere uomo, animale? Perché il mondo in cui vivo, all’opposto, è così arido, finto, fittizio?
Quando mi immergo
in queste terre incontaminate in un primo momento provo la sensazione di sentirmi inadeguato, è come se all'improvviso mi accorgessi di avere un’armatura che mi impedisce di sentire, di vedere. Sono al riparo dall’esterno e da me stesso. Cosa vedo? Perché sono qui dentro? Chi mi ha messo o mi ha indotto a mettere questa armatura? La tolgo e mi sento perso, disorientato.
E’ la stessa armatura che si è frantumata da sola questo inverno, quando mia mamma è mancata. Sono rimasto inerme, senza difese, di fronte alla nuda realtà delle cose.
Vorrei riappropriarmi del mio essere animale di questa terra, sentirmi parte di essa per ciò che realmente sono.
In questo luogo di pace, osservo gli oranti, la loro gestualità, i loro riti per espiare colpe o per liberarsi dal ciclo delle reincarnazioni. Sono rassicuranti, infondono tranquillità. In questo contesto ripenso con più distacco al rito della cremazione, a quel modo corale di vivere la morte; così ferocemente genuino e sincero.
E’ questo che voglio assorbire e portare via con me. Non è affatto un ricordo rassicurante ma è lo specchio della realtà, nitido e pulito. Voglio tenermi lontano dalle menzogne e dalle illusioni.


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1 Thich Nhat Hanh, Vita di Siddhartha il Buddha, Ubaldini Editore, Roma