Dedico
questo viaggio a mia mamma, che ci ha lasciati pochi mesi fa;
dedico
questo diario a mio papà, compagno di viaggio.
DISORIENTAMENTO
RONGBUK. Ghiaccio bianco, silenzio vellutato
TIBET, 2013
Ciò che segue è una
successione di fotografie di luoghi e del mio stato d’animo. Sono
delle istantanee che rivelano esattamente ciò che sentivo nel
momento stesso del viaggio. Forse ancora più spontanee rispetto alla
sequenza di immagini raccolte in Groenlandia.
Desideravo un viaggio
che riducesse la mia identità ai suoi elementi essenziali, per
vedere quali sono, per trovarli.
In un’epoca in cui il
turista è la norma e il mondo è un manifesto affisso al muro che si
può consultare al prezzo di un biglietto, questo desiderio ha il
sapore dell’utopia. Forse sono davvero un idealista, ma sognavo un
viaggio di ritorno, un viaggio verso le origini, verso l’assenza di
complessità e di finzioni che quotidianamente mi distraggono e mi
snaturano.
In poche settimane è
difficile raggiungere questo obiettivo. Ciò credo possa avvenire
poco per volta, viaggio dopo viaggio, esperienza dopo esperienza.
Perdere, lasciare, abbandonare, significa guadagnare semplicità,
innocenza. Osservo in me questa metamorfosi, iniziata in Groenlandia,
continuata nei tristi mesi invernali a cavallo tra 2012 e 2013, e
proseguita in Tibet.
Tutto sta contribuendo
a rendere di me un essere nuovo; è una continua evoluzione. Viaggi
all’interno di un lungo viaggio alla ricerca di risposte e di me
stesso.
Percorrendo la strada
che conduce verso l’aeroporto di Milano, per un breve istante
rivedo immagini del passato, ritorno all’infanzia, ai viaggi in
Germania, a quelle autostrade che agli occhi di un bambino sembravano
non finire mai, a quei paesaggi che osservavo dal finestrino; ricordo
i campi coltivati, il sole, i boschi, il piacere di riempire lo
sguardo di panorami mai visti, il desiderio di conoscere, di
esplorare. Oggi in macchina siamo solo mio papà ed io; è un
pensiero che emerge silenziosamente e che si fa spazio con
prepotenza; e rimane a lungo.
Mi sento ancora
distante dall’essere viaggiatore, resto in attesa di capire cosa
emergerà, cosa sentirò quest’anno, cosa cercherò. Sarò
viaggiatore? Viaggerò attraverso dei luoghi o dentro me stesso? La
meta scelta mi aiuterà a trovare la strada per raggiungere una
serenità e una pace interiore perse da mesi?
Lo scalo intermedio
viene fatto nel mezzo del deserto, atterriamo nell’affollato
aeroporto di Doha in Qatar. E’ quanto di più distante da ciò che
ho cercato negli ultimi anni: caldo soffocante e infinite distese di
sabbia. E’ una successione di burka, veli in testa, tessuti
colorati e tuniche bianche; arabi e
orientali. Osservando un’umanità che al primo momento mi
disorienta, avverto che la mente si alleggerisce e che i pensieri
cominciano a poco a poco a fluire verso l’idea del viaggio, emerge
a rilento il desiderio di esplorare mondi che non conosco; e di
leggerezza... Tuttavia questo aeroporto è un luogo neutro, è un
contenitore impersonale, sterile, privo di una sua tipicità, di una
nota distintiva; ma le persone che vi transitano o che vi lavorano
destano la mia attenzione e la mia curiosità.
L’aeroporto di
Kathmandu all'opposto, nella sua estrema semplicità e
immediatezza, riempie gli occhi e incanta. Sono in Asia, ed è una
assoluta novità per me (i ricordi del viaggio che feci in Siberia nel lontano 1988 si perdono ormai nella memoria). Immagini di libri, di film, di documentari,
si sovrappongono a ciò che vedo e scompaiono, letteralmente spazzate
vie da un mondo reale che mi scuote.
Nei miei ultimi viaggi
ho cercato ciò che più mi rappresenta come individuo. Mi piace il
freddo, la montagna, i ghiacciai, il Nord. Alla ricerca di
suggestioni e di me stesso mi sono imbattuto in luoghi che anche se
non fanno parte dell’Europa, ne mantengono comunque un legame,
seppur sottile.
Il desiderio di
poggiare lo sguardo sulla catena dell’Himalaya, sull’imponente
Everest, mi ha condotto in terre davvero lontane, in un mondo per me
completamente nuovo.
L’anno scorso ho
vissuto un’esperienza importante e intensa, mi sono perso e
ritrovato in un contesto fatto di Natura. Ho ritrovato il mio io
primordiale, che chiedeva solo di essere, non più di avere.
Questa nuova esperienza
sarà palesemente più varia, non ci sarò solo io e la Natura, ci
sarà anche una cultura millenaria che si sta svelando ai miei occhi.
Sono semplicemente incantato da ciò che ho intravisto oggi.
Il fascino del mondo
Inuit, popolo che mi ha conquistato nel corso dei due viaggi
precedenti, traspare dal rapporto istintivo e spontaneo tra uomo e
Natura, nei confronti della quale non viene esercitata alcuna azione
dominante e prevaricante. Gli Inuit professano un equilibrio con il
mondo che ha il sapore dell’utopia, tanto ingenuo quanto lo sono
loro stessi, che non hanno avuto la forza di contrastare il processo
di colonizzazione imposto dagli europei e dal cristianesimo.
Nonostante la apparente
ingenuità (agli occhi di un essere umano che vive nell’epoca della
globalizzazione), il loro è un modello di vita ideale, basato
esclusivamente sull’essere, in netto contrasto con il mondo che
conosco e col quale convivo, incentrato prevalentemente sull’avere.
E’ stato necessario andare di persona in quelle terre ghiacciate
per coglierne l’essenza. Gli Inuit praticavano una forma di
animismo che attribuiva uno spirito a ogni cosa o essere vivente. In
questa ottica non è la terra ad appartenere all’uomo, ma è l’uomo
che appartiene alla terra. In alternativa a templi, chiese, monasteri
dove professare un credo, un luogo considerato sacro, più degli
edifici costruiti dall’uomo, è la Natura stessa. E’ la massima
espressione del divino.
E’ inevitabile, dopo
un lutto importante, riflettere sulla propria natura finita, sul
senso delle religioni, sulla fede verso...cosa?
Anche questo mi ha
indotto a desiderare di vedere di persona un altro modello, questo è
il mio primo contatto con il mondo induista e buddhista.
In questi luoghi, che
per il momento ho avuto modo di osservare solo confusamente, la
presenza dell’uomo è visibile ovunque. E’ questo semplice e
banale pensiero che mi fa riflettere. Gli Inuit non hanno lasciato
quasi alcun segno.
Non è una curiosità
di natura teologica o antropologica quella che mi ha spinto a venire
qui. E’ una riflessione che faccio in pullman mentre ci dirigiamo
verso l’albergo. E’ il desiderio di vedere un luogo
geograficamente maestoso caratterizzato da una dimensione spirituale
indubbiamente affascinante.
Il caos di Kathmandu
mi ha portato a fare un unico pensiero: siamo animali,
anche se
spesso siamo portati a negarlo o a nasconderlo.
Gli esseri umani che ho
visto oggi sono più consapevoli? La loro fede li aiuta?
Sono esseri che credono
o che sperano?
Qual è il nostro
destino?
Il benessere del
cosiddetto mondo occidentale porta all’apparenza e alla
denaturalizzazione dell’essere umano che finisce col non
riconoscersi più. Ho l’impressione che la mia esistenza sia stata
un continuo togliere ‘illusioni’, certezze non tali, fantasie.
Scoprire l’essenza
della vita in questo modo mi sembra doloroso. Bisognerebbe partire da
altre basi per arrivare alla consapevolezza. Io sto cercando di
raggiungerla sfrondando, abbandonando parte di ciò che mi ha portato
fino a dove sono ora.
Questi esseri umani
nascono e crescono con modelli più ‘corretti’, più vicini alla
nostra natura?
Tutti quei cellulari
che ho visto oggi, e le belle televisioni nei negozi della città,
consegneranno anche a questo popolo le illusioni che sto cercando di
eliminare? Saranno sufficientemente attrezzati per farne un uso
consapevole?
In un lontano futuro
cercheranno un significato nei loro stupa? La coscienza di sé
le porterà a erigere monumenti e a teorizzare l’esistenza di
divinità a loro immagine e somiglianza?
Tutto evolve, tutto
cambia; dopo questa fase ce ne sono altre? Le religioni manterranno
un ruolo di primo piano? Manterranno un ruolo?
Questi dubbi mi portano
a vedere con un certo scetticismo questo abbandono in un credo così
profondo e radicato. E’ invitante e allo stesso tempo mi sento
distante, e forse nell'intimo desidero mantenere la distanza da ciò
che vedo. Apprezzo la spontaneità, la genuinità, la purezza. Per
come sono fatto io non so come si riesca ad affidarsi con così
grande fiducia e trasporto ad un credo, qualunque esso sia. Riconosco
che è un mio limite.
Non è mio interesse
esprimere giudizi, semplicemente osservo e traggo spunti da ciò che
vedo.
La forte
compenetrazione tra Induismo e Buddhismo che ho visto oggi documenta
una atipica e ammirabile forma di tolleranza, così come, nel
contempo, una alterazione (termine al quale voglio attribuire un
significato privo di connotazioni negative) del Buddhismo, convertito
compiutamente in religione, da sistema di pensiero, filosofia di vita.
Cosa vedrò in Tibet?
Vedrò una religione o una pratica per raggiungere la consapevolezza?
Avevo un’idea di
Lhasa che non corrisponde alla realtà. E’ un cucciolo di animale
in gabbia. E’ una città assediata, un’intera cultura
mortificata, un’identità smarrita. Vedo un mondo che forse aveva
trovato una via per raggiungere la consapevolezza, un modello ideale.
Ma è un mondo che si sta sgretolando, che stanno
riducendo in polvere. Non c’è neppure una compenetrazione tra culture diverse, una convivenza anche forzata. E’ semplicemente un’invasione. E’ davvero un genocidio.
riducendo in polvere. Non c’è neppure una compenetrazione tra culture diverse, una convivenza anche forzata. E’ semplicemente un’invasione. E’ davvero un genocidio.
Il Putala è
un’idea appesa a un filo destinato a spezzarsi; l’ultima
roccaforte di un mondo che sta per crollare.
Sono rimaste una
gestualità e una ritualità che in questo nuovo contesto sembrano
spogliate del loro significato più profondo. E’ triste pensare che
questa metamorfosi sia stata indotta con la forza.
L’essere umano era
giunto anche a queste altezze, alle pendici delle catene montuose più
alte del mondo. Era rispettoso di questi luoghi, consapevole
dell’unicità del posto, al quale chiedeva ospitalità e risposte.
Chi vi è giunto in
questi ultimi decenni è irrispettoso del luogo, del popolo che vi
viveva e della sua cultura. Non c’è un accenno di armonia in
quello che ho visto oggi, è una stonatura continua.
In nome della
supremazia sui propri simili, l’uomo è capace di tutto. Distrugge,
rovina, cancella pur di dimostrare la propria forza. E’ possibile
che siamo esseri così arroganti?
Troverò comunque delle
risposte? Qui o fuori da Lhasa?
La magnificenza del
Putala e del Jokhang giustifica il grande afflusso di
turisti che tuttavia rende impossibile una benché minima
concentrazione.
I pellegrini tibetani
si confondono in mezzo ai rumorosi turisti cinesi e ai pochissimi
turisti occidentali. Loro trovano un senso confusi in questo
assembramento, un senso che io fatico a trovare. Ma come tutte le
grandi attrazioni turistiche vanno osservate e interpretate altrove,
dopo averle viste. Lontano dal caos.
Dal Putala,
posto in una posizione dominante sulla grande vallata, si vede una
folle distesa di costruzioni nuove. Un tempo c’erano terreni e un
piccolo villaggio; ora un’anonima e fredda città cinese,
geometrica, funzionale, senza anima. Cardi e decumani sistemati sul
territorio senza tenere conto del contesto; piuttosto, quasi a
volerlo maltrattare e umiliare. Funzionalità replicabile. Città
prefabbricata.
passeggiata tra le vie di Lhasa antica finalmente mi ha offerto la possibilità di poggiare lo sguardo sul popolo tibetano. Non è successo nulla di particolare, ma ho visto un briciolo di questo mondo che stavo cercando, e che non speravo più di trovare. Osservo questo popolo e penso che la sua salvezza stia proprio nei suoi monasteri, simbolo di un’identità molto forte che può quantomeno contrastare l’assedio.
Non sono un attivista,
un sostenitore della causa del Tibet, sono solo un osservatore. Avrei
potuto raccontare la sensazione di stupore nel vedere le famose
bandiere colorate, gli effetti dell’altitudine, i colori e le forme
delle case tibetane; i paesaggi nel tragitto dall’aeroporto a
Lhasa. Avrei potuto descrivere le tipicità del luogo, gli interni
dei monasteri, le alte statue che raffigurano i diversi Buddha, le
tuniche rosse dei monaci; i monaci stessi.
Non l’ho fatto perché
questo, purtroppo, è risultato solo contorno.
Ai miei occhi si è
presentato un mondo calpestato, insultato. Un popolo esiliato entro i
propri confini. Ciò è emerso in modo così violento che è l’unico
vero ricordo di questi primi giorni in Tibet.
Riconosco che il dedalo
di vicoli della città vecchia mi ha toccato in eguale misura, e
intuisco che mi ha offerto una via per afferrare la vera identità di
questo luogo. Nell’osc
urità scorgo una luce intensa che desidero
raggiungere.

Il Monastero di
Drepung e il Monastero di Sera offrono un’immagine più
autentica dell’antico Tibet. Riesco a cogliere con migliori
risultati, ma ancora non completamente, il senso di spiritualità che
incanta i tanti pellegrini che dalle loro campagne giungono fin qui.
Mi concentro sul loro lungo viaggio di preghiera e ignoro l’insolito
contesto in cui vivono. Desidero comprendere la tradizione religiosa
di questa terra, i valori di questo popolo. Questi monasteri sono un
po’ più isolati dal contesto urbano e sono meno affollati; il
significato che simboleggiano e che custodiscono è più accessibile,
è più evidente, è manifestato in maniera più chiara e autentica.
Mi lascio suggestionare dall’ambiente che evoca apertamente
immagini di altre epoche e di altre culture e osservo i monaci e i
tibetani stessi camminare lentamente tra le strette vie che
costeggiano i muri bianchi delle residenze e dei templi di questi
grandi monasteri.
I monasteri sono
magnifici e meritano di essere visitati, ma anche oggi la passeggiata
nella città vecchia mi ha comunicato spontaneamente una genuinità
che mi ha subito e nuovamente conquistato. Sono due mondi diversi, ma
queste vie piene di vita, di bambini che giocano all’aperto, di
cibo, negozi, odori, rumori, riescono a distogliermi dall’idea
dell’identità calpestata. I monasteri sono le roccaforti che
contrastano l’assedio accettando compromessi inevitabili ma
visibili. Sono destinati, in un futuro non così lontano, a diventare
contenitori sbiaditi di una cultura spenta, annichilita.
Questo vecchio
quartiere parla ancora, afferma con animo la sua identità. E’
destinato a diventare un ghetto, ma non ci penso e mi perdo
nuovamente in questo dedalo come ho fatto ieri.
Qui ritrovo il mio io
viaggiatore.
Anche questa mattina il
tempo è bello. I rilievi che circondano Lhasa sono impreziositi
dall’azzurro intenso del cielo e dalle luminose nuvole bianche.
L’aria è tersa, pulita, il clima è secco. Sono i cieli che ho
visto nei miei viaggi verso il nord del mondo, ma forse sono persino
più cristallini, più puri, più nitidi, più puliti.
Lasciamo le aree urbane
e entriamo in un altro mondo.
E’ il Tibet che
immaginavo, dove la Natura è padrona assoluta. E’ un paesaggio
assolutamente inaspettato. La vallata dove scorre il fiume Bramaputra
ha le sembianze di un deserto.
Dune di sabbia e
rilievi alti oltre 4000 metri si combinano e offrono dimora al Tempio
di Dorje Drak.
E’ piccolo e raccolto; in questo contesto,
sprofondato nella natura, fa pensare al silenzio, all’intimità, al
raccoglimento, all’ascetismo. E’ un luogo vivo, non è un oggetto
solo da osservare, non è un museo. Qui colgo il senso di
spiritualità che con grande fatica ho percepito a Lhasa.
Per essere un ‘viaggio
della meditazione’ come quelli effettuati in Groenlandia, ora
bisognerebbe abbandonare i mezzi che ci accompagnano, e vivere,
sentire questa Natura immensa.
Lo sguardo si perde,
gli spazi si fanno infiniti. Alle nostre spalle emergono in
lontananza alte cime innevate.
E’ l’inizio di un
viaggio itinerante, vedrò paesaggi e realtà lontane dalla modernità
e dalla mia quotidianità.
Mi sento più leggero,
indosso le vesti del viaggiatore, mi spingo verso l’ignoto.
Contemplo questo angolo di mondo dall’alto della collina di Hepo Ri. Il panorama s
i apre a 360 gradi e si perde a vista d’occhio. Oltre al villaggio e al monastero, solo Natura, senza confini.
Dopo cena la gente del
posto si riunisce nel bar vicino all’albergo e si concede tè e
anguria. Questo popolo sorridente mi conquista.
Nei corridoi
dell’albergo mi accompagna il profumo di incenso, presente ovunque
in questo paese.
Una ciotola di riso,
due bastoncini, un thermos di tè appoggiati nell’incavo di una
finestra di una residenza del tempio di Dorje Drak;
cavalli con selle
colorate che sostano sotto gli alberi;
uno stambecco nel
cortile del monastero di Samye;
nuvole bianche come il
latte;
i rettilinei di pietra
e rami sulle dune di sabbia;
i fiori azzurri e le
bandiere colorate che si agitano al vento;
le porte ornate delle
case tibetane;
gli abitanti del
villaggio di Samye.
Sono immagini che oggi
sono rimaste fotografate nella mia mente e che regalo a mia mamma.
Samye è senza tempo, è il senso di spiritualità che si
respira nel monastero, è la semplicità della vita di campagna, è
il silenzio.
Lasciamo questa isola e
ci immergiamo in un paesaggio fatto di verdi rilievi macchiati dal
bianco delle pecore che pascolano e dal giallo della sabbia. Sono
spazi senza confini e non urbanizzati. La strada è un lungo serpente
che costeggia il fiume e che taglia la lunga vallata. L’acqua è
torbida, la sabbia abbonda ed emerge ai lati e al centro del fiume.
In lontananza, immancabili, le alte cime innevate. Il suono del
tamburo, dei lunghi corni usati per le cerimonie religiose è in
perfetta armonia con questi spazi che si dilatano e si perdono
all’orizzonte. E’ un suono lungo, profondo, vivo, che pulsa.
Sogno ad occhi aperti, cerco ospitalità in questa straordinaria
immensità, tanta quiete induce al raccoglimento. Abbandonato
felicemente sul sedile posteriore del fuoristrada osservo questo
mondo dal finestrino e appunto nel mio quaderno impressioni,
immagini, fantasie.
E’ un viaggio dello
spirito, alla ricerca di un perché.
Dopo una prima fase in
cui è prevalso lo stupore, il disorientamento, la sorpresa; in cui
ero intento a capire dov’ero, confuso dai vari trasferimenti, prima
Nepal e Kathmandu, poi Tibet e Lhasa; ora gli equilibri si sono
aggiustati e il pensiero del decesso di mia mamma è tornato forte
come prima. E’ un vuoto incolmabile.
Vedere questi
monasteri, questi templi, i pellegrini, i monaci, dà un po’ di
consolazione. E’ un’immersione in una dimensione fortemente
spirituale. Ogni giorno, ogni visita a un monastero è l’occasione
per leggere dentro me stesso e per cercare di trarre un po’ di
serenità.
Liberare la mente
accogliendo impressioni cariche di significati da portare via e
custodire con cura dentro se stessi: cercavo questo.
Viali di salici, sabbia
che si arrampica sui rilievi, vallate verdi su cui scorre
placidamente un fiume. La friendship highway inizia.
Occhi pieni di paesaggi
e colori.
E’ il giorno della memoria, del rimpianto del passato, delle bandiere di preghiera, dei ‘cavalli del vento’ che portano le preghiere in alto nei cieli.
E’ il giorno della memoria, del rimpianto del passato, delle bandiere di preghiera, dei ‘cavalli del vento’ che portano le preghiere in alto nei cieli.
E’ una successione
mai vista di paesaggi meravigliosi: dune di sabbia in prossimità di
Tsetang, verdi terrazzamenti e isolate case tibetane, acque
color turchese del lago, una estesa vallata con vegetazione spoglia
simile alla tundra, e maestosi e imponenti rilievi coperti di neve e
ghiacciai. Il paesaggio si fa poi più dolce e verde, tagliato da un
fiume color cobalto, prima di arrivare nella città di Gyantse.
Lungo il percorso solitari villaggi del colore della terra, tende
nere, pastori di pecore e di yak.
i piace ingenuamente pensare che rappresentino mio papà e me stesso in questa giornata tacitamente dedicata a mia mamma. E mi piace pensare che Lucia ci stia seguendo, che sia in qualche modo qui con noi, in mezzo a questa natura imponente. Che sia il senso di meraviglia che suscita questa Natura straripante.
E’ un altalena,
l’umore sale quando mi concentro sul viaggio e quando la mente si
libera. E’ un tuffo al cuore quando richiamo alla mente il suo
decesso. Accetto, cos’altro fare.
Presente e passato si
confondono e continueranno a farlo. Non è il mio io viaggiatore che
scrive ora, sono momentaneamente scivolato nel mio vicino passato;
non oppongo resistenza, forse sono un po’ più debole, mi lascio
sopraffare dai ricordi.

y, di mani che offrono denaro alle statue. Riempio gli occhi dall’alto del castello, il paesaggio si apre a 360 gradi, la vallata è incorniciata da rilievi di un colore che sfuma dal marrone al verde scuro. La vastità disorienta, si vorrebbe cogliere l’insieme ma è troppo. Dall’alto si vede il piccolo villaggio tibetano, un gioiello in miniatura. Nella sua semplicità è quasi più evocativo del complesso sacro. Animali da pascolo legati ai portoni d’ingresso come fossero guardiani, sculture sacre poste all’entrata a tutela del modesto rifugio; strade sterrate dello stesso colore delle case, essenziali ma sempre riccamente decorate. Osservo in silenzio, con lo stesso riguardo e discrezione con cui mi addentro e mi muovo nei monasteri, assaporo il fascino di un ambiente arcaico che evoca una molteplicità di immagini e sensazioni, che incanto!
viene utilizzato anche come combustibile per riscaldare le case nei lunghi e freddi inverni. E’ un elemento prezioso e letteralmente senza prezzo, impagabile.
Estesi e vasti campi di
orzo fanno da barriera tra una casa e l’altra. Serre disseminate
nei terreni forniscono considerevoli quantità di cocomeri;
considerata l’altitudine è quanto mai insolito scoprire che il
cocomero è un frutto molto apprezzato in Tibet.
Il paesaggio che
osservo dal finestrino è come un enorme quadro in movimento,
riccamente ornato da cieli incredibilmente azzurri, macchiati dal
bianco candido delle nuvole, gonfie e voluminose. L’aria è tersa e
pulita.
Parte di queste
immagini si traducono in realtà, o è la realtà che muta in sogno.
Il piccolo monastero di Shalu e il suo villaggio appartengono
a un’altra epoca, sono uno spaccato di un mondo ancestrale. La
suggestione cresce all’interno del monastero, non c’è luce e le
statue dei Buddha affiorano dal buio, esseri impenetrabili, celati
nell’ombra.
Pitture risalenti all’XI secolo rivestono le pareti delle sale interne, conferendo
ulteriore valore al luogo e alimentandone il fascino. I grandi
portacandele colmi di burro di yak, posti di fronte alle statue,
sembrano rappresentare il mondo terreno, con quell’odore pungente
che arriva dalla terra circostante.

E’ un mondo in
movimento, l’ambiente contadino si confonde e si amalgama in un
paesaggio che, inizialmente appena accennato, diventa presto urbano.
Shigatse, quel mondo contadino tipicamente
tibetano sembra essere stato risucchiato, polverizzato e rigettato
fuori sotto forma di un’anonima parata di edifici squadrati e
pedantemente geometrici.
L’arrivo di una città viene annunciato da incessanti lavori diss
eminati lungo la strada. Superato il viale di salici posto all’ingresso di
L’arrivo di una città viene annunciato da incessanti lavori diss
eminati lungo la strada. Superato il viale di salici posto all’ingresso di
Il Tibet e la
Groenlandia sono due luoghi paesaggisticamente meravigliosi. Sono
luoghi fragili che soccomberanno sotto l’effetto della
globalizzazione. Guardare coi propri occhi queste mutazioni, ancora
in potenza o già avviate, comporta l’elaborazione di una forma di
rassegnazione e di accettazione verso ciò che genericamente
definirei cambiamento, evoluzione. Il termine ‘impermanenza’ è
l’essenza di questo viaggio, nulla resta per sempre, prima di tutto
noi stessi e chi ci sta vicino, chi amiamo.
Forse ciò che bisogna
imparare a fare è saper apprezzare; e saper dire
‹‹ho avuto la
fortuna di vedere quel luogo con i miei occhi››,
‹‹ho avuto l’onore
di vivere a fianco di quella persona››.
E’ mio compito non
sprecare mai niente, devo far crescere dentro di me ciò che vivo,
che sento, che vedo. E trasmetterlo, comunicarlo.
Se due occhi e un cuore
si spengono, devono continuare a parlare attraverso gli occhi e il
cuore da essi generati.
E questi luoghi devono
essere raccontati da chi ha avuto la possibilità di visitarli e di
apprezzarne la bellezza.
Il complesso monastico del Tashilumpo, residenza del Panchen Lama, è maestoso, è un piccolo villaggio che oggi ospita un migliaio di monaci.
I lo
ro sono gesti meccanici, indotti, o sono frutto di trasporto sincero e di una illuminazione raggiunta? Mi limito a osservare affascinato i loro rituali che infondono serenità. I volti stessi di queste persone sono sereni e senza esitare in prolungate e inconcludenti riflessioni, questo è l’insegnamento che ricevo.
ro sono gesti meccanici, indotti, o sono frutto di trasporto sincero e di una illuminazione raggiunta? Mi limito a osservare affascinato i loro rituali che infondono serenità. I volti stessi di queste persone sono sereni e senza esitare in prolungate e inconcludenti riflessioni, questo è l’insegnamento che ricevo.
Limpidi, aperti ed
estremamente comunicativi sono i sorrisi dei tre bambini che
incontriamo lungo la strada per Sakya; esprimono il senso di
pace e di leggerezza che infonde questa terra.

un carro trainato da un
asino; sullo sfondo case tibetane;
un campo di orzo, una
contadina china sulla terra coltivata;
famiglie sedute sotto
un ombrellone azzurro, una pausa dal faticoso lavoro nei campi;
donne con cappelli
colorati in testa;
un mulinello di vento
alza la terra sfumandola nel cielo;
un piccolo agglomerato
di case, persone sedute all’ombra e un cortile impreziosito da alte
campanule dai colori vivaci;
paesaggio brullo e
verdi terrazzamenti coltivati che convivono in armonia;
profondità e serietà
negli sguardi dei bambini.
Affogata nelle
montagne, in lontananza si vede Sakya, che si rivela un vero
gioiello. Al nostro arrivo alcuni rilievi vengono spruzzati di neve.
Le mucche, accompagnate dai loro pastori, tornano dal pascolo e
transitano davanti al grande monastero che ha le sembianze di un
castello medievale. E’ un angolo di mondo isolato, lontano, perso
nel nulla; evoca immagini di epoche antiche ormai perdute. E la mia
mente si perde in un gioco di immagini che vengono sia dalla realtà
che dalla finzione, dalla storia e dalle favole. Di notte si sente il
suono profondo dei corni provenire dall’interno del complesso sacro
Sei mesi oggi.
Desidero ricordare mia
mamma in questo luogo speciale, in questo suggestivo monastero.
Lascio un’offerta, un dollaro, e penso a Lucia sotto lo sguardo
indulgente di Sakyamuni, il Buddha del presente, il Buddha
storico, seduto a gambe incrociate sul suo trono di fiori di loto.

Nonostante il pensiero
ricorrente, questo viaggio mi sta regalando un po’ di quiete e un
po’ di serenità che non provavo più da lungo tempo e che stavo
cercando. Lucia mi manca immensamente, ma assorbire quotidianamente
in questi monasteri parole e concetti della filosofia buddhista è
consolante, anche se non risolutivo.
Attaccamento e avversione sono funi che legano allo stesso modo.
Il liberato li trascende entrambi, stabilendosi nella pace e nella
felicità. Tale felicità è incommensurabile. Il liberato non si
attacca alle visioni errate della permanenza e del sé; ma neppure si
attacca a visioni ristrette riguardo all’impermanenza e al non sé (1).
Respiro il senso di
libertà che mi suggeriscono gli spazi ampi e vasti che osservo dal
finestrino. Vorrei correre e perdermi in questa immensità e non
pensare a nulla.
Attraversare prati e
campi a piedi nudi; correre, correre, correre, fino a perdere il
fiato.
Il Tibet, il tetto del
mondo; osservare da queste altitudini questo panorama fa sentire
vivi. E infonde un’energia e una carica che desidero accumulare e
usare quanto più a lungo possibile.
Anche se ormai muniti
di moto, immagino nuovamente i nomadi di questi luoghi, la cui
fisionomia mi ricorda quella degli indiani d’America, con le loro
trecce ornate di rosso e avvolte sul capo, cavalcare lungo queste
ampie vallate che salgono e scendono, che si rincorrono, e dalle
quali si innalzano queste maestose montagne che toccano il cielo.
Ammirare queste bellezze naturali, vivere in stretto contatto con esse, inevitabilmente porta a interpretare in modo più vero il proprio essere, la propria condizione. Mi sento meno essere umano e più animale, meno cittadino e più semplicemente creatura. Ci stiamo scordando che in fondo siamo organismi naturali e che abbiamo un profondissimo legame con la natura. Non si può separare la civiltà dalla natura, dipendiamo totalmente da essa.
Gli imponenti paesaggi che vedo ora hanno la stessa forza degli ambienti immacolati della Groenlandia.
Rifletto sul grande fronte glaciale che ho visto per due anni consecutivi; rifletto sul suo rapido arretrare.
Nel nostro inconscio siamo tutti immortali, è inconcepibile riconoscere di dover affrontare la morte. Allo stesso modo riteniamo che i mutamenti del nostro pianeta non ci riguardino, li reputiamo talmente dilatati nel tempo che siamo portati a pensare che se accadranno, ciò avverrà in un lontano futuro.
Non pensiamo mai che possano avvenire nei pochi anni in cui noi stessi viviamo su questo pianeta.
In realtà proprio ora è in corso un mutamento epocale, provocato dagli stessi esseri umani. Lo scollamento tra civiltà e natura è cresciuto a tal punto da farci dimenticare chi siamo, da portarci a ferire e offendere la nostra terra e alla fine noi stessi.
I nostri avi coniavano nomi impegnativi e carichi di significati per identificare le meraviglie che vedo in questi giorni; la grande Dea Madre dell’Universo. Che senso di rispetto e di riguardo che evoca questo nome; e noi? Abbiamo ereditato tutto ciò, e cosa facciamo? Il riscaldamento globale è una realtà, è il risultato della nostra ottusità.
Prima di cena rimango a osservare il paesaggio, la pianura sconfinata che cerco di abbracciare con lo sguardo, gli imponenti picchi himalayani.
Tutto quello che ho visto oggi lo dedico a mia mamma.
Il termine Ama in lingua tibetana significa Madre.
Gli imponenti paesaggi che vedo ora hanno la stessa forza degli ambienti immacolati della Groenlandia.
Rifletto sul grande fronte glaciale che ho visto per due anni consecutivi; rifletto sul suo rapido arretrare.
Non pensiamo mai che possano avvenire nei pochi anni in cui noi stessi viviamo su questo pianeta.
In realtà proprio ora è in corso un mutamento epocale, provocato dagli stessi esseri umani. Lo scollamento tra civiltà e natura è cresciuto a tal punto da farci dimenticare chi siamo, da portarci a ferire e offendere la nostra terra e alla fine noi stessi.
I nostri avi coniavano nomi impegnativi e carichi di significati per identificare le meraviglie che vedo in questi giorni; la grande Dea Madre dell’Universo. Che senso di rispetto e di riguardo che evoca questo nome; e noi? Abbiamo ereditato tutto ciò, e cosa facciamo? Il riscaldamento globale è una realtà, è il risultato della nostra ottusità.
Prima di cena rimango a osservare il paesaggio, la pianura sconfinata che cerco di abbracciare con lo sguardo, gli imponenti picchi himalayani.
Tutto quello che ho visto oggi lo dedico a mia mamma.
Il termine Ama in lingua tibetana significa Madre.
Giochi di luce e di
ombre sui rilievi. Nuvole oscurano il paesaggio.
E’ un momento del
viaggio particolarmente significativo, ci avviamo verso il campo base
dell’Everest, o Dea Madre dell’Universo. Superiamo
l’ennesimo posto di blocco cinese, attraversiamo un piccolo
villaggio, e iniziamo la salita.
La meta che stiamo per
raggiungere richiama alla mente le innumerevoli spedizioni nate con
l’intento di sfidare altezze impossibili, limiti quasi
invalicabili. Solo l’idea di pronunciare le parole ‘ottomila
ottocento metri’ fa tremare le gambe, fa mancare il fiato. Eppure
queste spedizioni sono partite esattamente da dove mi trovo ora.
Mentre seguitiamo a
salire rifletto sulle sensazioni che tale grandiosità poteva
suscitare nei popoli che vi vivevano in prossimità, in epoche più
remote. La soggezione, la venerazione; la devozione e il rispetto che
hanno indotto queste genti a coniare un nome così importante.
Scendendo da ques
to primo passo incrociamo alcuni ‘indiani’ a cavallo delle loro moto. La discesa procede e la strada attraversa un piccolo nucleo di case, un villaggio dimenticato, sperduto. Dei bambini ci salutano, donne, animali da pascolo e qualche cane fiancheggiano la strada. E’ un’isola in mezzo a questo mondo solitario e sconfinato del colore della terra; mille sfumature di marrone, mille alture, colline, montagne che si inseguono e sovrappongono.
to primo passo incrociamo alcuni ‘indiani’ a cavallo delle loro moto. La discesa procede e la strada attraversa un piccolo nucleo di case, un villaggio dimenticato, sperduto. Dei bambini ci salutano, donne, animali da pascolo e qualche cane fiancheggiano la strada. E’ un’isola in mezzo a questo mondo solitario e sconfinato del colore della terra; mille sfumature di marrone, mille alture, colline, montagne che si inseguono e sovrappongono.
rzioni, la
La Dea Madre
dell’Universo è come un oracolo. Si fa osservare con
riverenza. Ne vediamo una parte dietro la quale si erge maestosa la
parete più alta, appena accennata dietro alle nuvole. Che imponenza,
che grandiosità..
sacro e naturale, accentua le specificità di entrambi e le combina in un insieme armonico e altamente evocativo. E’ abitato da diciassette monaci e da quindici monache. E’ il monastero più raccolto, caldo e ospitale tra quelli visitati. E’ piccolo, si snoda in poche stanze semplici e sobrie. La cucina è un ambiente accogliente anche se quasi appena abbozzato. Non vi è pavimento, si cammina sul terreno, ben spianato e liscio. Al centro c’è la stufa, alimentata con lo sterco essiccato di yak. Tutto attorno ai lati, giacigli su cui sdraiarsi. Il monastero, è l’unica struttura, oltre alle tende dove abbiamo mangiato, che offre riparo in prossimità del campo base. Verrebbe voglia di restare qui per un po’ di giorni, ad ammirare il paesaggio e a osservare da vicino la vita di questo monastero.
yak al pascolo in ampie
vallate verdi e collinari;
una famiglia che mangia
sul prato;
l’”halo” quasi
urlato dei bambini di un isolato villaggio;
stambecchi che si
inerpicano sulle rocce;
alture tondeggianti che
sembrano dipinte con colori ad acquerello, mille sfumature di
marrone, verde, viola, ocra.
Vivo il presente,
portare dietro tutto questo è impossibile. Questa vastità ti
rammenta quanto siamo piccoli, deboli. Ed allo stesso tempo è la
porta per accedere al sacro Tibet, al Tibet dei lumini tremolanti
delle lampade a burro.
Osservo incantato.
Greggi di pecore lungo
il percorso e un villaggio in lontananza. Una pausa, scendiamo dalla
macchina e…il silenzio.
E’ una giornata
leggera, nessun pensiero, nessuna riflessione, provo un forte senso
di tranquillità. Mi sento a casa in questi luoghi.
Dal cortile
dell’albergo osservo la maestosa Dea Madre dell’Universo
in tutta la sua bellezza, chiara, ben visibile, senza più nuvole. Le
bandiere staranno sventolando laggiù, in quella vallata silenziosa e
solenne.
Parto all’alba. Un
branco di cani si lancia di corsa tra i prati dell’ampio pianoro in
fondo al quale svetta la Dea Madre dell’Universo. Che
senso di libertà..
I colori dell’alba
ammorbidiscono forme e colori del paesaggio di ieri.
Tende sparse sui prati;
del fumo suggerisce l’idea di una tenda adibita a cucina.
Rovine del colore della
terra lungo la strada a ricordare l’occupazione nepalese.
Grappoli di case
tibetane sparsi lungo il fiume, ognuna immancabilmente con la sua
bandiera rossa, tacito segno di accettazione dell’invasione in
corso. Un assedio molto più subdolo rispetto agli antichi fortini
nepalesi.
E’ la potenza della Natura.
Come può tanta bellezza non avere alcun significato? Essere fine a sé stessa? Perché chiede di farsi osservare/osservarsi?

Un centro abitato con
edifici alti e moderni simboleggia, in un contesto simile,
l’arroganza dell’uomo. La stonatura è giustificata dalla vicina
presenza del confine con il Nepal.
Ricompaiono
gradualmente prima gli arbusti e poi gli alberi che, tornante dopo
tornante, cominciano a ricoprire i rilievi e a modificare l’aspetto
del luogo. I panettoni di pietra dalle mille sfumature di marrone
sono ormai lontani, così come le sterminate e infinite valli
dell’altopiano tibetano.
iamo i motori e sentiamo solo il rumore dell’acqua. Che pace, che colori! Sarà per la discesa improvvisa, per l’idea di uscire dal Tibet e di arrivare alla conclusione del viaggio, ma sento che il mio sguardo chiede ancora un po’ di quella quiete e vastità dell’altopiano, ormai lontano, là in cima.
L’ultimo centro
abitato prima del confine, Dram, è abbarbicato sulla
montagna. Si sviluppa lungo una serie di tornanti. E’ una
città-dogana, grande e piena di vita, di negozi, di merci; quanta
confusione…dove sono finiti gli ampi spazi abitati solo dai nomadi?
Al loro posto grandi camion Tata parcheggiati ai lati della strada
(peraltro stretta) in attesa di passare il confine. C’è
un’atmosfera animata e frenetica, e considerato il brulichio di
Kathmandu, suppongo che da qui fino alla fine del viaggio la
quiete e il silenzio verranno sostituiti dal trambusto e dalla
confusione.
Più scendo e più
il paesaggio seguita a cambiare, le coltivazioni aumentano, si vedono
terrazzamenti in ogni dove. Riso da qualsiasi parte si volti lo
sguardo.
E quante fontane. Ogni
piccolo agglomerato di case ha la sua fontana posta lungo la strada.
Vengono lavate le stoviglie e i vestiti; l’acqua fresca che scende
dalla montagna è anche un toccasana per rinfrescarsi; il clima ora è
caldo umido. L’aria tersa e frizzante del Tibet è ormai un
ricordo.
Dell’ultimo tratto di
strada, prima di arrivare a Dulikhel, mi rimangono impressi
due colori: il verde intenso della vegetazione e il rosso deciso
della terra.
Il Nepal è un mondo completamente diverso dal Tibet, lo stacco è netto. Qui tutto è così, mi si passi il termine, sfacciatamente vero, immediato, schietto, da lasciare storditi. C’è un continuo movimento, c’è affollamento in ogni angolo, lo sguardo è attirato dalle tante abitazioni disseminate lungo la strada, dai suoi numerosi abitanti, dagli animali; dinamismo e vivacità. Indigenza e miseria.
I maestosi paesaggi del Tibet, quasi disabitati, infondevano un senso di intimità, di riservatezza. Qui, al contrario, ciò che vedo mi induce a pensare a due termini che esprimono altre sensazioni: apertura e disinvoltura. E mi accorgo che le mie riflessioni si fanno più pungenti, più severe.
La morbida carezza del Tibet, che mi ha guidato nei miei momenti di raccoglimento, offrendomi conforto e consolazione, cede spazio a un gesto ruvido e spigoloso, che mi mostra con estrema spontaneità e immediatezza la vita nella sua più cruda realtà. Questo luogo mi affascina e allo stesso tempo mi disorienta. La povertà costringe a sottrarre, a vivere con poco o anche con niente. Tutto è esposto, è pubblico. Non sembra esserci riservatezza. La vita si svolge all’esterno, non ci sono mura domestiche a proteggere la sfera privata. E i pensieri arrivano diretti, subito a fuoco, non c’è bisogno di elaborazioni e di interpretazioni. Osservo la vita nella sua essenza, semplice e spontanea.
Il Nepal è un mondo completamente diverso dal Tibet, lo stacco è netto. Qui tutto è così, mi si passi il termine, sfacciatamente vero, immediato, schietto, da lasciare storditi. C’è un continuo movimento, c’è affollamento in ogni angolo, lo sguardo è attirato dalle tante abitazioni disseminate lungo la strada, dai suoi numerosi abitanti, dagli animali; dinamismo e vivacità. Indigenza e miseria.
I maestosi paesaggi del Tibet, quasi disabitati, infondevano un senso di intimità, di riservatezza. Qui, al contrario, ciò che vedo mi induce a pensare a due termini che esprimono altre sensazioni: apertura e disinvoltura. E mi accorgo che le mie riflessioni si fanno più pungenti, più severe.
La morbida carezza del Tibet, che mi ha guidato nei miei momenti di raccoglimento, offrendomi conforto e consolazione, cede spazio a un gesto ruvido e spigoloso, che mi mostra con estrema spontaneità e immediatezza la vita nella sua più cruda realtà. Questo luogo mi affascina e allo stesso tempo mi disorienta. La povertà costringe a sottrarre, a vivere con poco o anche con niente. Tutto è esposto, è pubblico. Non sembra esserci riservatezza. La vita si svolge all’esterno, non ci sono mura domestiche a proteggere la sfera privata. E i pensieri arrivano diretti, subito a fuoco, non c’è bisogno di elaborazioni e di interpretazioni. Osservo la vita nella sua essenza, semplice e spontanea.
Ma è il centro sacro delle cremazioni,
Pashupatinath, che arriva dritto al cuore, e che rianima le
mie sofferenze.

vuole esporre, non fa parte della quotidianità.
Qui al contrario è mostrata, esposta,
condivisa, resa pubblica, è tangibile. E forse è giusto così. Il
rito funebre è brutale nella sua naturalezza. Non riesco a guardare,
sono immagini che mi procurano dolore, il ricordo della morte di mia
mamma è ancora fresco.
Affollamento, animali, corpi cremati;
gente accalcata in ogni dove che osserva. E’ come se rivivessi quel
triste momento con gli occhi di mille persone.
In un altro periodo della mia vita
avrei guardato pure io; e in futuro guarderò. Voglio prendere le
distanze dal nostro modo di allontanare la morte.
Anche i tibetani sono incoraggiati ad
assistere alle loro cerimonie funebri e a confrontarsi apertamente e
senza timore con la morte, ritenuta un potente mezzo di
trasformazione e di progresso spirituale.
Siamo noi che neghiamo la morte e la
malattia. La teniamo separata da noi e dalla nostra quotidianità.
Sono gli spazi senza
confini e una cultura profondamente pervasa dal senso religioso gli
elementi fondamentali di questo viaggio. Inscindibili e
complementari.
Osservare questi
pellegrini mi precisa il significato e il valore di questo viaggio.
I monasteri e lo stesso
altopiano, illimitato, vasto, dominato da vette che sfiorano il
cielo, si equivalgono; sono luoghi fortemente permeati di sacralità,
meta di un personale pellegrinaggio inconsapevole e allo stesso tempo
desiderato.
La religione popolare
del Tibet abbraccia sia la dottrina buddhista che la religione locale
bön, fede animista, sciamanica. Si basa sul culto e la pacificazione
degli spiriti, che risiedono nelle rocce e negli alberi, in fondo a
laghi, fiumi, pozzi; nelle montagne, nell’aria. Questo ha portato i
nomadi tibetani a vivere in equilibrio perfetto con il loro aspro
territorio, ne hanno riguardo.
E’ la stessa forma di
rispetto verso la Natura che ho osservato in Groenlandia.
Ciò che ne consegue è
un rapporto diretto e vero anche verso se stessi, verso ciò che
realmente siamo, fragili ospiti di questa terra.
Quando mi immergo
in queste terre incontaminate in un primo momento provo la sensazione di sentirmi inadeguato, è come se all'improvviso mi accorgessi di avere un’armatura che mi impedisce di sentire, di vedere. Sono al riparo dall’esterno e da me stesso. Cosa vedo? Perché sono qui dentro? Chi mi ha messo o mi ha indotto a mettere questa armatura? La tolgo e mi sento perso, disorientato.
in queste terre incontaminate in un primo momento provo la sensazione di sentirmi inadeguato, è come se all'improvviso mi accorgessi di avere un’armatura che mi impedisce di sentire, di vedere. Sono al riparo dall’esterno e da me stesso. Cosa vedo? Perché sono qui dentro? Chi mi ha messo o mi ha indotto a mettere questa armatura? La tolgo e mi sento perso, disorientato.
E’ la stessa armatura
che si è frantumata da sola questo inverno, quando mia mamma è
mancata. Sono rimasto inerme, senza difese, di fronte alla nuda
realtà delle cose.
Vorrei riappropriarmi
del mio essere animale di questa terra, sentirmi parte di essa per
ciò che realmente sono.
In questo luogo di
pace, osservo gli oranti, la loro gestualità, i loro riti per
espiare colpe o per liberarsi dal ciclo delle reincarnazioni. Sono
rassicuranti, infondono tranquillità. In questo contesto ripenso con
più distacco al rito della cremazione, a quel modo corale di vivere
la morte; così ferocemente genuino e sincero.
E’ questo che voglio
assorbire e portare via con me. Non è affatto un ricordo
rassicurante ma è lo specchio della realtà, nitido e pulito. Voglio
tenermi lontano dalle menzogne e dalle illusioni.
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1 Thich Nhat Hanh, Vita di Siddhartha il
Buddha, Ubaldini Editore, Roma